domenica 30 ottobre 2011

The Dillinger Escape Plan - "Calculating Infinity"

Introduzione Sfigata alla Musica Tritaossa (vol.3)

1999

Preparate l'estintore per le vostre orecchie perché "Calculating Infinity" ve le farà bruciare frizionandoci sopra a velocità impazzita i suoi riff isterici...
Ma prima forniamo ai nostri lettori aspiranti maniaci un po' di background.
I Dillinger Escape Plan non sono una band come tutte le altre: sono un'istituzione. Prima di tutto perché ha avuto così tanti cambi di line-up che oggi l'unico membro originale è il chitarrista fondatore Ben Weinman, che tuttavia ne ha mantenuto alto il nome. In secondo luogo perché loro non fanno mathcore, loro sono il mathcore. Il genere l'hanno praticamente inventato loro e "Calculating Infinity" ne è il manifesto. In pratica prende influenze hardcore punk, di quello più veloce e incazzato, e le mischia a influenze jazz, di quello più strambo e dissonante. Non c'è nulla che suoni come questo disco prima di questo disco: velocissimo, imprevedibile e cattivissimo (più del Grinch). Ditemi se non sono crudeli questi 37 minuti in cui non c'è un attimo per riprendere fiato, in cui le chitarre tessono riff mortiferi super-intricati e i cambi di tempo sono assolutamente arbitrari, dei veri e propri strappi nella struttura delle canzoni (che se questa parola deriva da "canto" allora sarebbe più consono chiamare "urlazioni") tali da far sì che alcuni brani comincino già cominciati (!!!). Gli unici momenti vagamente definibili "di tregua" sono le brevi e inaspettate svisate jazz più lente che però non fanno altro che rimarcare il fatto che la band stia manipolando a suo piacimento la resistenza dell'ascoltatore. 
Questo disco è un delitto perfetto e la vittima è il vostro cerebro, un esempio di come si possano mettere delle doti tecniche ineccepibili al servizio dello sbudellamento sonico.


P.S.: il seguente video mostra i Dillinger mentre suonano dal vivo (i loro show sono considerati fra i più devastanti del mondo ed è anche impressionante vedere come i vari strumentisti si dimenino come folli nonostante la difficoltà delle partiture) e sebbene qui siano con una formazione diversa da quello che registrò questo disco è utile vederli in azione per comprenderne, anche visivamente, la violenza emessa. Si sconsiglia la visione ai deboli di cuore.

sabato 29 ottobre 2011

Cryptopsy - "None So Vile"

Introduzione Sfigata alla Musica Tritaossa (vol.2)

1996

Sarebbe impensabile voler scoprire le gioie ma soprattutto i dolori (acufenici) della musica estrema ignorando il genere metal più pesante, devastante e faticoso da digerire: parlo del famigerato brutal death metal. Ed eccovelo qua in tutto il suo raccapriccio, servito su un piatto d'argento come la testa del battista Giovanni offerta da Erodiade (qui ritratta in copertina nel dettaglio di un dipinto di Elisabetta Sirani).
Se volete scommette sulla vostra sanità mentale e capire quanto volete spingervi a fondo dovete necessariamente passare per questo "capolavoro" dei canadesi Cryptopsy. Se il doom metal fa paura per la densità lavica del suo suono, il thrash metal spaventa per la velocità ipertecnica della chitarra e il death metal disgusta per la grassezza suina del suo cantato growl, "None So Vile" fonde tutti questi elementi e rincara la dose in un clangore sferragliante, vomitevole, gelido e confusionale. Ascoltando questi 30 minuti scarsi di puro delirio freddamente preparato avrete la sensazione che qualcuno vi stia azzannando la faccia ma non sentirete alcun dolore, sarete distanti, già morti dentro, alienati dalla sua psichedelia infernale. È un disco che metterà a dura prova la resistenza dell'ascoltatore più scafato e che di certo farà esplodere in un lago di sangue e cervella la testa del neofita. Vi consiglio di non sopravalutarvi e di attaccare dei giornali alle pareti, così per sicurezza.
Ma non pensate che sia un brutto disco, anzi: una volta entrati nel meccanismo ultraviolento che propone comincerete ad apprezzare la rapidità assassina dei suoi riff, il drumming incastrato in modalità "blast-beat perenne", i brani che si interrompono di colpo, gli intermezzi pianistici per riprendere fiato e la produzione decentemente equilibrata  (il basso, si sente il basso!). Nota finale sulla voce: un profondo grugnito biliare che a volte sa strapparsi in qualche bell'urlaccio spastico. Ovviamente i testi non si riconoscono manco lontanamente, nemmeno tenendo le trascrizioni sott'occhio.
Per farla breve: se volete cominciare una luminosa carriera che vi porterà nei migliori manicomi criminali pre-legge Basaglia questo è il banco di prova.


venerdì 28 ottobre 2011

Jon Schmidt - "August End"

Leggiadria per piano solo

1991

Sbem! Che cazzo di strumento il piano: può offrirti la banalità più sciatta o l'estasi più divina a seconda di chi lo tocca. Questa volta tocca toccarlo a Mr. Jon Schmidt. Nato a Salt Lake City nel 1966 e sconosciuto ai più fino a pochi anni fa venne accecato dalle luci della ribalta del palcoscenico di Youtube, nel 2009, quando miscelò un brano della giovane cantate pop-country Taylor Swift e uno dei Coldplay in "Love Story Meets Viva La Vida" ritrovandosi di colpo a essere uno dei pianisti pop più apprezzati del web 2.0.
"August End" è il suo primo disco di composizioni strumentali ed è bollato come "new age classical" ma non riesco a capire bene perché anche se effettivamente non suonerebbe male in uno di quei negozietti freakettoni con le fontane e i giardini zen da tavolo, le lampade di quarzo rosa che sprigionano ioni positivi, le borse con le pezze colorate e un odore forte di incensi da meditazione nell'aria. Quello che in realtà mi ricordano questi pezzi brillantemente prodotti e dal mood sereno e a volte un po' malinconico (ma di quella malinconia piacevole e tiepida) è l'immagine della bella famigliola che va a fare colazione nel Mulino Bianco. Colpiscono tutti al primo ascolto per il senso di radiosa familiarità che riescono a infondere nella parte del vostro cuoricino meno ribelle, più attaccata alla famiglia e tradizionalista: quella che non vuole scappare dalla città, quella che non vuole tatuarsi un cono gelato in faccia, quella che non vi fa dire "fac de polis!". 
E si sa - come ben ci hanno lobotomizzato sin da piccini - dove c'è barilla c'è casa. 
Sarà anche un po' melenso e patinato ma non c'è niente da fare: per quanto incazzati possiate essere questo disco vi condannerà a sentirvi almeno un pochinino meglio. Roba che mica tutti i pianisti sanno, o vogliono, fare.

lunedì 24 ottobre 2011

Strapping Young Lad - "City"

Introduzione Sfigata alla Musica Tritaossa (vol.1)

1997

Immaginate di avere una ragazza (lo so: è dura). Una di quelle tipe hipster-poserine che guardano Michael Cera nei film e dicono "Aaaaaawwww, checcarrinoooooo!" quando probabilmente direbbero "Eeeeeewwww, chesfigatoooooo!" se incontrassero un suo equivalente non altrettanto famoso nella vita di tutti i giorni, magari. Senza indagare sul come avete fatto a rimorchiarla immaginate (e qui non è difficile) di starci un sacco sotto e di farle un fottio di regali. Presto comincerete a portarla a tutti i vostri concerti sfigati di gruppi assurdi che le avete fatto conoscere. Tutte band puffolose e tenere come i Clientele, i Tunng, i Maritime, i Rural Alberta Advantage, i Metric o gli Stars che pensate potrebbero piacere al suo cuore delicato di femminuccia. Quello che non avete messo in conto è che probabilmente con tutte queste musichine xilofonate lei inizierà a pensare che la vera femminuccia siate voi. E comincerà ad ambire pesantemente virilità e puzza di sudore. E prima che riusciate a dire "Death Cab for Cutie" ve la vedrete fuggire assieme a un motociclista vestito con la pelle di un orso Grizzly (altro che Grizzly Bear) ucciso a mani nude. Questo perché vi siete mostrati troppo sensibili e deboli. Questo perché nella vostra libreria iTunes non c'era nemmeno un po' di sano metallo che le avrebbe fatto pensare "oh, allora non è proprio una mammoletta fatta e finita". Certo per non sembrare dei molluschi sarebbe forse più efficace andare ogni tanto in palestra ma volete mettere la fatica e i rovinosi effetti che avrebbe sul vostro pallore che trovate tanto affascinante...
SfigatIndie vuole allora creare un servizio per salvaguardare le vostre eventuali future relazioni, se siete utenti maschi, e per capire cosa pretendere dai vostri partner, se siete utenti femmine. E nel frattempo farvi scoprire le gioie del sanguinamento auricolare. Cominciamo la nuova rubrica "Introduzione Sfigata alla Musica Tritaossa" con una megabomba uditiva, allora.
Gli Strapping Young Lad sono una band canadese capitanata dal geniale cantante chitarrista Devin Townsend, conosciuto anche come "La chioma più bella del metal" (che di recente ha tagliato, purtroppo). Fanno extreme metal che detta così fa paura ma non permette di capire di cosa si tratta esattamente. State però certi che, se non siete avvezzi a questo tipo di musica, la prima volta che l'ascolterete schiamazzerete una risata isterica di terrore per poi schiantarvi sul pavimento, esangui. Ciò che rende questo metal veramente "extreme" non è tanto la velocità o la complessità tecnica quanto piuttosto la densità del suono: mostruoso, compattissimo e pluristratificato, grazie a una produzione perfetta che utilizza anche effetti elettronici un po' industrial. A farla da padrone però è la batteria devastante dell'arrapantissimo Gene Hoglan (detto anche "The Atomic Clock"), un eroe del doppio pedale, che sa ricreare un incessante rumore di elicottero. 
Ma "City" non è solo una titanica esplosione di potenza annichilente che farà sanguinare le vostre orecchie vergini, è anche un capolavoro della musica pesante grazie ai suoi testi brillanti e per nulla banali (senza parlare di titoli come "Oh, My Fucking God") e ai suoi svolazzi melodici che riescono a trovare spazio in mezzo al trambusto tramite la voce corrosiva di Townsend. 
Un disco corto ma colossale che vi devasterà al primo ascolto, infierirà sulla vostra carogna al secondo e affogherà la vostra anima nello Stige al terzo.


P.S.: è presente anche una cover molto fedele di "Room 429" dei Cop Shoot Cop

martedì 18 ottobre 2011

Hudson Mohawke - "Satin Panthers"

Lecca-lecca acidi a forma di piede che si succhiano con le orecchie

2011

Giuro che quando lo vidi dal vivo la prima volta l'effetto fu davvero strano, quasi comico: il produttore hip-hop di Glasgow più phresh del bigonzo (a partire dal nickname tamarro col turbo) non poteva essere veramente un ragazzino cicciottello in magliettazza bianca e bermuda! Potere alchemico della musica: uno sfigatello, probabilmente Twix dipendente, con goffe pose da street incredibility che nel mondo reale non si cagherebbe nessuna, non solo aveva delle smandrappone che salivano sul suo palco e lo distraevano flashando le tette a manetta mentre dj-settava, ma riusciva anche a far ballare di gusto una grossa platea di trucidoni in pantaloni XXL, catenazze e anfibi senza dover usare manco per un secondo la cassa diritta.
In realtà, a una più attenta analisi la musica grossa e grassa di Hudson Mohawke (all'anagrafe Ross Birchard) tradisce una certa nerdaggine drogata: è stradaiola solo sulla superficie mentre sotto è un miscuglio di gelatina traballante, dolcissima e piena di coloranti di quelli che tutte le mamme dicono che fanno malissimo anche se non riesci a capire bene che sintomi possano provocare, ma di certo in cuor tuo sai bene che non possono di certo essere salutari col loro aspetto chimicissimo
Se volete provare un'overdose di kitschume estremo vi consiglio di provare direttamente l'album "Butter": sperimentale, gommoso, lisergico e succosamente nauseabondo. Se invece non vi sentite ancora pronti, questo recente EP ("pantere di raso") è più facile e ballabile ma lo stesso provoca quell'effetto psichedelicamente maranza che solo la visione di una Lamborghini Gallardo color viola elettrico che si schianta nella campagna scozzese sa dare.


martedì 4 ottobre 2011

The Pains of Being Pure at Heart - "Belong"

Un'iniezione di empatia nel cuore

2011

Ora che questo disco non è più chiacchierato perfino dalle massaie al mercato rionale posso dirlo con franchezza. "Belong", secondo disco dei Pains of Being Pure at Heart (nome di Cristo, proprio), è il mio personalissimo disco dell'anno, del mio 2011. Da Aprile è sempre rimasto fisso sul mio lettore, non si è schiodato un attimo. L'ho ascoltato voracemente a tutte le ore del giorno, in motorino, nel letto, sul vater clò, facendo colazione, piangendo, ridendo, ruttando, ecc. Perfino quando non era fisicamente nelle mie orecchie lo canticchiavo nella mia testa. Sarà perché se dovessi scegliere la mia canzone preferita di sempre sceglierei a botta sicura "Temptation" dei New Order, perché ogni canzone di questo album ci assomiglia un po', ne riprende quella dolcezza sognante e ben ritmata. Sarà perché questi brani sono double-face, ovvero possono essere sia tristi che allegri a seconda di quando uno li sente e la cosa mi ha fatto troppo comodo in questo anno intenso e multipolare. E per questa sua caratteristica di resistere alla prova di varie fasi emotive differenti son certo che continuerà a farmi comodo.
Che poi si tratta di guitar/synth-pop di stampo chiaramente anni80esco ("Girl of 1000 Dreams" sembra uscita da Psychocandy) gonfio di romanticismo rosa shocking, echi a volonta e vocine frociettine. Potete provare a non provare un puccioso tuffo al cuore dal trampolino dei 10 metri ascoltando le ammalianti "The Body", "Too Tough" e "Even in Dreams" ma non ci riuscirete. 
Alla fine nulla di originale è vero, ma in fondo curare e far crescere rigogliosa una pianta pre-esistente non è meno difficile che piantare un seme tutto nuovo. Ecco perché più sento questo disco e più mi convinco che, musicalmente parlando, i migliori anni '80 del XX secolo sono gli anni '10 del XXI secolo. Insomma viviamo una ficata di anni bellissimi e ci abbiamo l'internet, ci abbiamo SfigatIndie, siamo meno "materialisti" perché rubiamo i dischi e i film coi torrent (vabè, in un certo senso lo siamo di più ma almeno non diamo una lira alle multinazionali. E hai detto cacchio) e soprattutto ci abbiamo i TPOBPAH che squagliano magnificamente come stagno la nostra rigidità emotiva.


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