sabato 30 aprile 2011

The Weeknd - "House Of Balloons"

Lussuriose cronache del Finesettmna

2011

Che ci fa un disco R&B su SfigatIndie? Bè, innanzitutto, non è semplice R&B ma pseudo electro-soul-dubstep-R&B-hip-hop: una di quelle strane fusioni post-moderne che si infila nel solco tracciato da artisti come Nicolaas Jaar o James Blake. In seconda istanza, questo mixtape auto-prodotto (rilasciato in free download) è spuntato dal nulla pochi mesi fa e si è già guadagnato il favore dei più autorevoli critici. In terzo luogo, il progetto The Weeknd che risponde al nome del cantante canadese Abel Tesfaye, ha la giusta aura di misteriosità: infatti per ora la figura del sopracitato artista rimane sconosciuta al pubblico, cosa che permette di concentrarsi sulla musica e basta. Per ora ci basti sapere che la canadesità del tipo ci permette, pregiudizialmente, di scongiurare la dozzinalità e la sboronaggine tipica dei colleghi statunitensi.
In ultima analisi, questo disco è una ficata pazzesca. Sono canzoni melmosamente elettroniche piene di gustosi clichés R&B come vocalizzi a non finire, handclapping, bassi pressurizzati e spruzzate di auto-tune (sebbene utilizzato misuratamente). Ma ciò che da vera dipendenza a questi brani è l'oscurità che emanano i testi: storie di feste sporcaccione, di cocaina, di sesso, di falsi amori, di grigia solitudine. Vi faranno sentire sporchi mentre le ascolterete. Cronache di un mondo patinato, luccicante ma opprimente, dove i soldi comprano una felicità effimera; dove, quando la festa finisce, la musica si spegne, il sole sorge e si torna nel mondo reale rimangono solo rimpianti, mal di testa e nasi irritati. A mettere pepe al tutto c'è un ottimo gusto per delle cullanti basi che ti si appiccicano addosso grazie all'uso sapiente di elementi dark-wave (come ad esempio il sample di "Happy House" di Siouxsie and the Banshees nella stupefacente title-track).
Un ottimo disco da ascoltare quando tornate a casa, guidando nella notte, mentre vi allontanate depressi da profani templi del divertimento.

venerdì 29 aprile 2011

Cancer Bats - "Bears, Mayors, Scraps & Bones"

Andiam, andiam, andiamo a scapocciar!

2010

C'è sempre poco da dire quando un disco è ben fatto, è bello, appassionante, fomentante, gasante, rinvigorente, eruttante, eiaculante, sferzante, brutalizzante, asfaltante, massacrante, masticante, sanguinante e delirante. Non puoi mica stare a cavillare su fatti tecnici o su quanto questo o quel brano abbia bei riffoni affilati o martellate di batteria spappola-budella. No. E' semplicemente metal-hardcore new school con un po' di sludge fatto così bene che a queste menate da critico non ci pensi mezzo secondo perché non puoi smettere di fare headbanging come un invasato coicanomane che strepita, sputa, si morde la lingua e si infila sigarette accese nelle orecchie. C'è pure una buona cover di "Sabotage" dei Beastie Boys che col metal c'entrano poco: cioè, per farvi capire il buon gusto di questi figoni tatuati canadesi.
Un disco metal festaiolo, ecco: mettetelo su ai vostra droga-party e cominciate a tirar ceffoni sulle guance paonazze dei vostri amici sbronzi fradici.
Pogo à GO-GO!


P.S.: per una mia recensione più approfondita ma manco troppo clicca qui

mercoledì 27 aprile 2011

Gang of Four - "Entertainment!"

Ritmo nel rosso sangue

1979

Gli inglesi Gang of Four prendono il nome dalla famigerata "Banda dei quattro", gruppo sovversivo capeggiato dalla vedova di Mao Tze Tung che cospirava per un colpo di stato contro lo stesso Partito Comunista Cinese dopo la morte di Mao, avvenuta nel 1976. Questo per farvi capire la portata provocatoria di questa band fondamentale per il post-punk che, non a caso, venne più volte bandita dalle radio ma che riuscì anche ad ottenere un contratto con la EMI senza snaturare il loro messaggio rivoluzionario. Mentre in Italia i "marxisti" rapivano la gente, si facevano crescere le barbe e scrivevano pallose canzoni per chitarra e flauto di pan da cantare rigorosamente con l'erre moscia, in Inghilterra prendevano la "rivolta bianca" del punk e ci aggiungevano ritmo e funk nero, come una pantera.
Innumerevoli gruppi come Red Hot Chili Peppers, The Rapture e per persino i Franz Ferdinand o svariate band new-rave non esisterebbero senza il basso martellante di Dave Allen che scopa con la batteria secca di Hugo Burnham nel mentre Andy Gill accoltella la chitarra con plettrate ritmiche e quasi amelodiche e Jon King ci singhiozza sopra testi anticapitalisti e antisessisti.
Era il 1979 e tutto sembrava possibile: anche che la retorica socialista potesse portare la gente a muovere le chiappe in pista, senza per questo fargli spegnere il cervello.
Capolavoro? Potete dirlo forte, compagni.


lunedì 25 aprile 2011

The Futureheads - "The Futureheads"

Un revival frizzante

2004

Avete presente quella sensazione che assale il vostro naso quando vi fate una botta di coca... cola, uno shot alla goccia del famoso liquido nero, specie quando è calda? 
Come se vi stessero per uscire miliardi di bollicine dalle narici...
Come se vi prudesse la corteccia cerebrale...
L'album di debutto dei Futureheads tenta di ricreare quella sensazione di pruriginosa freschezza nelle vostre orecchie, e ci riesce pure. Nient'altro che revival di quelle robe dell'epoca post-punk assai simpatiche, nevrotiche e ballabili, tipo i Wire o i Gang of Four. Ecco qui si torna a ballare di gusto al ritmo di chitarra, basso e batteria con 15 pezzi brevissimi (pure una cover da Kate Bush) che entrano subito in testa e descrivono con frenetici cori a cappella la frenesia della moderna vita urbana. Senza mai prendersi troppo sul serio anche se l'estetica indie³ farebbe pensare il contrario (ma era pur sempre il 2004 e ancora non era troppo stereotipata). Un disco veramente sottovalutato, ignorato e dimenticato dai più, nonostante il bollino "best new music" che gli appioppò Pitchfork.
Recuperatelo e tirate una bella sniffata di bollicine.

sabato 23 aprile 2011

Pelican - "City of Echoes"

Metal strumentale affascinante e a volte goffo. Come un pellicano.

2007

Metal strumentale (o meglio "post-metal"), avete letto bene e se state pensando "che palle!" bè, in parte, potreste aver ragione. Prima, però, un orecchio a quest'album degli americani Pelican dovreste darglielo. Ok, magari non a tutto l'album che, sarò onesto, non è affatto un capolavoro. Non è nemmeno tecnicamente eccelso: la batteria, ad esempio, è un po' debole, arrancante e poco espressionista. È un peccato perché sarebbe potuto essere davvero un gran disco. Il punto è che si gioca tutte le carte migliori in due soli pezzi (almeno sono i più lunghi) che, in effetti, sono probabilmente i più bei pezzi di rock strumentale che abbia mai sentito, per via delle loro progressioni melodiche evocative. Metal da ascoltare con gli occhi chiusi: scordatevi le corna in aria e l'headbanging. Gli altri pezzi, un po' più sludge e duri, sono carini ma un po' piatti e decisamente non immaginifici come la title track e "Spaceship Broken - Parts Needed". Quest'ultima, in particolare, ogni volta che l'ascolto mi trasporta in mezzo allo spazio siderale e mi fa sentire veramente il pathos e la drammaticità del rimanere con una navicella spaziale in panne nel bel mezzo del vuoto cosmico.
Vi consiglio di ascoltare almeno questi 2 brani: forse troverete coinvolgenti anche gli altri.


venerdì 22 aprile 2011

Phoenix - "It's Never Been Like That"

On n'est jamais été comme ça

2006

Ma quanto sono fighi i francesi? Meno di quanto gli stereotipi parigini possano farci credere, in realtà, dato che non hanno il bidet, sebbene si tratti di una parola francese, e si infilano i filoni di pane sotto le ascelle. Però i Phoenix sono certamente fighi. Innanzitutto il cantante se la fa con Sofia Coppola e, in secondo luogo, il loro pop-rock è inebriante per come riesce a entrare in circolo velocemente, come due litri di Chardonnay bevuti con il beer bong. Ti fanno saltellare la testolina e muovere le chiappe mentre ti gonfiano il cuore con le loro canzoni tenerissime.
Questo è il loro terzo disco e, anche se il migliore credo sia il successivo ("Wolfgang Amadeus Phoenix"), ci sono molto affezionato per come mi ha aiutato a superare col sorriso la stupida ironia dei burrascosi anni della tardo-adolescenza.
Ascoltatelo, fa sempre bene.


P.S.: la loro "Lond Distance Call" è stata coverata persino dai Paramore (o.O)

giovedì 21 aprile 2011

The Vaccines - "What Did You Expect From The Vaccines?"

Ballate malinconiche col pepe al culo

2011

Come sono bravi quelli della stampa inglese nel pompare gli artisti connazionali non c'è nessun altro. I Vaccines si sono formati meno di un anno fa e già hanno un disco: tutto grazie a un paio di singoli che hanno avuto un'enorme risonanza sulle riviste del settore. Non sono nulla di spettacolare i Vaccines, in realtà, però non si può dire che non se lo meritino. Fondono surf-pop a post-punk (con una bella voce baritonale ma non troppo) un po' come hanno fatto l'anno scorso gli oltreoceanici Drums. Le loro canzoni prendono tutte al primo ascolto, così graziose, primaverili e apparentemente spensierate, anche se parlano tutte  di relazioni finite con toni più o meno sconsolati (il picco della negatività è la bellissima "Post Break-Up Sex").
I Vaccines magari non saranno in grado di vaccinare contro questi mali, ma come lenitivo funzionano alla perfezione.


mercoledì 20 aprile 2011

Carmen Consoli - "Mediamente isterica"

Rock da sindrome pre-mestruale

 1998

Qualcuno troverà inopportuno la presenza di Carmen Consoli su un sito che vorrebbe fregiarsi di pubblicare chicche sconosciute e lontane dal (nostro) mainstream. E invece dico che vi sbagliate. Quest'album è una ficata e dovrebbe essere apprezzato da chiunque volesse vantare di avere un gusto musicale onnicomprensivo. "Mediamente isterica" (titolo che evoca gai scompensi ormonali) è un album rockeggiante che non c'entra una mazza con pallose parole di burro, fiori d'arancio, ultimi baci e altre fricchettonate con la pressione bassa. C'è un po' di grunge, un po' di prog, un po' di noise ma anche un po' di dolcezza che non fa mai male. E soprattutto belle melodie e una foga ardente che investe tutti gli uomini bruti che stanno sul culo alla bella Carmen.
Certo la voce è quella e se la odiate c'è poco da fare, anche se c'è da dire che qui l'effetto "piango-mentre-ho-un-orgasmo" è meno marcato rispetto ad altre sue opere.
Belle canzoni per quando ci si sente incazzate, tradite, furenti e quindi fragili (sì, al femminile, vale per tutti... cioè tutte).


P.S.: qui si può ascoltare in streaming

martedì 19 aprile 2011

Il triceratopo - "Volume 1"

La vita di merda dei giovani padawan negli anni '10

2010

Quanto sono influenzate le nostre vite di ragazzi post-moderni dalla cultura pop americana e non? Tanto. Talmente tanto che è normale che alcune di queste opere dettino il ritmo della nostra vita, il contenuto dei nostri pensieri, le battute e le citazioni di cui sono infarcite le conversazioni di tutti i giorni. Questo immaginario prefabbricato ci entra dentro incessantemente e noi lo accogliamo a braccia aperte per scappare da una grigia routine senza fantasia. Serie tv, film, libri e musica sono parte integrante della nostra vita: una sceneggiatura non-originale sulla quale rimodellare la nostra, di sceneggiatura, remixandola e costruendoci sopra qualcosa di nuovo.
Di questo parla Il triceratopo in questo breve quanto sorprendente EP di soli 4 brani, ognuno dedicato a un film diverso. Della disillusione che si vive quando si cresce in un mondo pieno di bastardi che ci fanno chiedere perché non abbiamo scelto anche noi di stare dal Lato Oscuro, invece di voler esser onesti come dei Jedi. Della prima cotta pre-adolescenziale per la ragazza con cui guardavi Karate Kid. Dei rimpianti che ti fanno desiderare di montare su una Delorean DMC-12 alimentata a plutonio per tornare indietro e rimettere le cose a posto.
4 brani acustici forti di una scrittura semplice, ingenua e diretta che colpisce allo stomaco.
Si sa, la cattiveria della vita non l'ha inventata George Lucas e ogni tanto qualche Alderaan esplode davvero: il cantante Gilberto Valsecchi è scomparso di recente a soli 27 anni. SfigatIndie, nel suo piccolo, vuole ricordarlo facendo conoscere le storie di vita nerd da lui urlate con tanta passione viscerale.

"Sarà che le cose son cambiate adesso
ogni sconfitta mi ha reso diverso
e lo spirito Jedi non mi appartiene
ora vorrei essere Darth Vader!"


lunedì 18 aprile 2011

Los Hermanos - "Ventura"

SaudadIndie

2003

Sconosciutissimi dalle nostre parti Los Hermanos, nonostante il nome fuorviante, vengono da Rio de Janeiro e quest'album è talmente caruccio da essere entrato nella classifica dei 100 album più importanti per il Brasile stilata dall'edizione locale della rivista Rolling Stone. Cos'ha di così caruccio vi chiederete voi?
Innanzitutto, è brasiliano quindi, per natura, esotico e arrapantafrodisiaco. In secondo luogo ripropone in chiave lo-fi anni '00 la musica popolare brasiliana (MPB). Dunque, tante belle canzoncine flemmatiche e dense di morbida saudade (la romantica nostalgia cui i brasileiri son tanto affezionati) impiccantite da una patina di indie-rock leggero leggero fuso alla bossa nova (ci sono le trombe, ma non son mai invadenti). 
Se proprio devo indicare un difetto quello è la durata eccessiva del disco: 15 brani tutti molto simili. Ma poco importa: ascoltatelo durante un tramonto sulla spiaggia di Bahia in compagnia di una ragazza compiacente. Farà il suo lavoro.


domenica 17 aprile 2011

The Organ - "Grab That Gun"

 
"Love, love / I’d really like a small part of it"

2004

No, cari Interpol, Editors, White Lies e The National, non siete stati voi a fare il miglior disco di revival dark-wave anni zero. Non siete stati voi i peggio depressi der bigonzo.
A soffiarvi la palma dello spleen post-moderno ci hanno pensato 5 fighe lesbo-canadesi.
Saranno i riff di chitarra in loop che ti scavano il cuore come un cucchiaino scava un kiwi, sarà quella batteria aridissima, saranno quei giri di basso che calciano lo stomaco oppure quella voce piena e affranta... non lo so, fatto sta che le Organ erano le uniche che riuscivano a suonare vere e uniche dall'inizio alla fine del loro disco, nonostante i richiami a Joy Division, The Sound e, specialmente, The Cure fossero palesi. Il fatto che durasse meno di mezz'ora era sicuramente d'aiuto ma in più le Organ avevano una tastierina (l'organetto del loro nome evidentemente) che rendeva le loro canzoni di passioni impossibili e disperazione apatica ancora più spettrali. Parlo al passato perché la band non esiste più: si sono sciolte dopo aver dato alle stampe questo album stupendo e un paio di ep irrilevanti.
Pochi si ricordano di loro eppure, parlando del loro revivalistico genere, sarebbero le uniche che veramente andrebbero ricordate.


P.S.: si ringrazia Ondarock per avermele ri-ricordate

sabato 16 aprile 2011

David Bowie - "Aladdin Sane"


1973

Record Store Day 2011 (leggi qui)

In realtà questo non è propriamente il primo album che abbia mai avuto. Il primo album della mia vita fu "Bagus" di Cesare Cremonini che mi regalò mio padre, che ascoltai una volta e che regalai a mia zia, una di quelle cose da non raccontare mai.
Il primo album di cui mi innamorai follemente (e che continua ad essere uno dei miei album preferiti al mondo) fu invece "The Rise & Fall of Ziggy Stardust & the Spiders from Mars" di David Bowie, ad undici anni. Era di mio fratello e lo ascoltai per tutto il tragitto scuola-dentista-Ikea-casa, e, come spesso dico molto pomposamente, mi cambio la vita da così a così assieme a "The Velvet Underground & Nico", che ascoltai poche settimane dopo. Prima di quel momento il mio gruppo preferito erano i Red Hot Chili Peppers, che vabè per una bambina di 11 anni è già molto, però a ripensarci, matonna.
Era la prima media quindi, quei magici anni in cui o sei un koatto del Bronx o sei uno sfigato da menare, io non parlavo quasi con nessuno e se qualcuno mi chiedeva qual era il mio gruppo preferito rispondevo “i Nirvana” (che effettivamente mi facevano cacare di meno di adesso, neh) perché tanto a undici anni, alla scuola media Vigna Piammerda (oggi I.C. Nino Rota), sai quanti bambini sapevano chi fosse David Bowie; dicevo i Nirvana perché erano più nazional-popolari, ogni tanto Mtv impazziva e li passava, ci facevo meno la figura dell’emarginata sociale. Poi arrivavo a casa e mi ascoltavo il glam rock a stecca: Bowie, Lou Reed e T.Rex in genere. La musica anni ’60 è arrivata a quattordici anni con "Beggars Banquet" dei Rolling Stones, la new wave e il punk ancora dopo.

Ma quindi, cos’è stato per me “Aladdin Sane” di David Bowie? È stato il primo album comprato con i miei soldi, pagato con una banconota da 50€, da Pop Music ai Colli Portuensi. Avevo dodici anni.
Il mio primo acquisto, il buon vecchio "Aladdin Sane", incontra il nuovo arrivato, comprato ieri pomeriggio. Tema della foto: nuove e vecchie glorie.

Fino al liceo, come ho già fatto capire, ero tremendamente timida e mi vergognavo di quasi tutto quello che facevo: tenetti nascosti i miei cd per anni e li ascoltavo solo la sera quando ero da sola in camera, quindi per me "Aladdin Sane" fu una forma di emancipazione davvero paurosa, già per il fatto che presi coraggio per chiedere al frocione del negozio se me lo andava a prendere in magazzino. Fu anche l’album che ascoltai di più in tutta la mia vita: nonostante non fosse assolutamente tra i migliori di David Bowie, ogni sera per almeno tre anni, fisso & categorico, me lo ascoltavo dall’inizio alla fine, lo portai pure al esame del Trinity in terza media come oggetto da mostrare alla tipa per parlare del topic da me scelto, che era David Bowie ovviamente, eccheccazzo (uscii con B, se a qualcuno può interessare).

"Aladdin Sane" è un album che si fa amare dal primo ascolto, così glam (che poi non è altro che hard rock eseguito da un finocchione), così patinato, la copertina poi è una bomba. Creato da un David Bowie cocainomane come pochi, con Mick Ronson alla guitarra (tanto brutto quanto branda)…mmmmh che belli i pochi ricordi felici della pre-adolescenza.

Se qualcuno mi chiedesse di consigliargli un album di David Bowie, prima urlerei di piacere, poi gli consiglierei "Ziggy Stardust", "Heroes" o "Station To Station".
"Aladdin Sane" non sarà mai ai livelli di questi tre (e anche di altri), ma è stato un farmaco molto potente per combattere gli scurissimi anni delle medie. Amen.

Aerosmith - "Just Push Play"

Il primo disco non si scorda mai

2001

  Oggi è il Record Store Day! Giunto alla sua V edizione, è il giorno in cui si celebra la resistenza dei negozi di dischi che proprio non ne vogliono sapere di estinguersi. Un'ottima giornata per andare in un bel negozio pieno di vinili polverosi per comprare qualcosina. In occasione di tale evento ho deciso di raccontarvi qualcosa circa il primo disco acquistato in vita mia.

10 anni sono passati. 10 anni fa ne avevo 12. Ero in prima media. L'acquisto del mio primo disco arrivò quasi per caso. Mi trovavo in gita scolastica alla Reggia di Caserta, quando, dopo aver girovagato a lungo mi buttai stancamente su un prato. Si avvicinò uno dei numerosi venditori ambulanti di minchiate, con l'unica differenza che questo aveva una cosa che gli altri non avevano: un walkman. Non avevo mai posseduto un walkman, così lo comprai per diecimila lire (ah, nostalgia). Era bruttino e fatto di una plastica scadente, ma aveva una cassa integrata e soprattutto funzionava. Rimaneva un problema non da poco: non avevo nulla da fargli suonare. Allorché, di ritorno dalla gita, ci fermammo ad un Autogrill. E lì la vidi: rosa, kitsch e bellissima. La cassetta dell'ultimo degli Aerosmith (il 13esimo per la precisione) doveva essere mia. In realtà la comprai solo perché mi piaceva assai il video di "Jaded", in cui recita pure una giovanissima e truccatissima Mila Kunis.
Fatto sta che per i mesi successivi l'ascoltai fino alla nausea.
Per quanto ne potevo sapere all'epoca già intuivo che non si trattava certo di un capolavoro. C'erano dei pezzi rap/hard-rock come la title track e "Outta Your Head" che mi gasavano non poco. Altri, invece, mi rompevano le palle in modo assurdo: come "Fly Away Frome Here", pacchianissima ballata che vorrebbe essere una sorta di seguito a "I Don't Want To Miss A Thing", altro brano che andrebbe processato presso il tribunale dell'Aja. Inoltre, solo anni dopo fui in grado di comprendere tutte le porcate allusive e cose poco adatte ai bambini che contenevano i testi (anni dopo quando scopersi il significato della parola "ganja" mi si illuminarono gli occhi per l'eccitazione e lo sbigottimento). Un altro pezzo che mi sconvolgeva, infine, era "Drop Dead Gorgeous" in cui c'è una voce effettata che mi ricordava quella gutturale di Marilyn Manson.
Alla fine, è un album molto medio (ehm..) fatto da una band ormai vecchia e fuori moda ma ad ogni modo fu il mio primo disco e penso le cose mi sarebbero potute andare peggio.


venerdì 15 aprile 2011

iwrestledabearonce - "It's All Happening"

Grindcore incarognito, vulvadelico e picchiatello

2009

 Finalmente un gruppo che fa roba estrema che non si prende troppo sul serio (come dimostra il loro merchandising). Con una cantante pheega in mezzo a tanti bruti nerdoni metallari, per giunta. Gli iwrestledabearonce (traducibile con "unavoltamisonoazzuffatoconunorso") si distinguono dalla massa di colleghi avant-math-grind-core (Converge, Coalesce, The Dillinger Escape Plan, Botch, ecc.) per l'utilizzo assolutamente a cazzo di cane di inserti sonori strampalati (samples da serie tv, tastierine 8-bit, ritmi elettronici trip-hop, divagazioni jazzistiche e fisarmoniche da zingarello) che rendono tutto più imprevedibile e per la voce spettacolare della sopracitata Krysta Cameron, che rimbalza da un growl mostruoso a un voce pulita e super-extensible rimembrante, decisamente, quella di Björk. 
Un disco esagitato, powissimo e matto-in-culo, descritto perfettamente, meglio di mille parole, dalla copertina gomitata-in-un-occhio style.
Se volete godere come porcelli esaltati mentre pogate contro lo spigolo della porta questo disco è la crème de la super-mega-hyper-fucking-crème.
Finalmente l'avanguardia folle è diventata sballosa!

Compralo subito o downloadalo prima

P.S.: clicca qui per una recensione un po' mejo e qui per un video sbiellato

giovedì 14 aprile 2011

Less Than Jake - "Anthem"

Skappiamo da questa città!

2003

Quando si è adolescenti si è assai propensi a sentirsi nel proprio piccolo ribelli, senza esagerare però. Ed è proprio per questo che esiste il pop-punk: per sentire empatia e solidarietà nelle ribellioni di tutti i giorni. Ho sempre adorato il pop-punk americano: ancor prima di interessarmi a tempo pieno alla musica già avevo un tot di dischi (fra cui gli immancabili blink-182) del genere comprati a scatola chiusa. Persino oggi, quando sento una voce stupidamente melodica e una successione di 3-4 accordi mi si gonfia il cuore d'orgoglio teenager. Questo "Anthem" dei Less Than Jake è un po' diverso dal resto dei dischi simili: è più adulto (niente storielle di gnocche con cui "getlaidarsi") e più variegato nei suoni. C'è un po' di ska, un po' di power-pop, un sacco di pop-punk col pepe ar culo e tanti inserti di sassofono che indorano un po' la pillola. Le canzoni parlano essenzialmente di evadere, di lasciare una città che ci fa sentire "outcasts", di partire verso luoghi migliori anche se non mancano frecciatine a ragazze superficiali. Il pezzo che condensa tutti questi sentimenti d'evasione, il vero anthem di "Anthem", è la ipergasante "Look What Happened" indirizzata a tutti coloro che minacciano sempre di piantar baracca e burattini ma non lo fanno mai. Bè, con quella canzone di sottofondo sarebbe molto più facile prendere una decisione.
Se volete sentirvi di nuovo (o per la prima volta) dei 15enni monelli, questi sono 40 minuti ben spesi.

 

mercoledì 13 aprile 2011

Dente - "L'amore non è bello"

Un Dente sensibile

2009

Giuseppe Peveri, in arte Dente, scrive canzoni che ogni ragazza vorrebbe sentirsi dedicare e che fanno rosicare ogni ragazzo perché solo Dente sa cantare canzoni simili. Canzoni d'amore, certo, ma rese speciali dalla varietà con cui il cantautore emiliano riesce a trattare l'argomento: ora con ironia, ora con elegante rancore, ora con immane tenerezza. Canzoni delicate e notturne, pennellate da una languida tastiera vintage, il cui comune denominatore è la scrittura semplice e diretta, alla Mogol, che racconta storie che valgono per tutti e che contiene tante frasi memorabili da scrivere sulla propria smemoleskine puntellate di cuoricini.
C'è poco da dire: premete play e mettetevi gli occhiali da sole per non accecare nessuno col luccichio in fondo alle vostre pupille.


P.S.: grazioserrima anche la collaborazione con Il Genio

martedì 12 aprile 2011

The Replacements - "Let It Be"

Essere indie negli eighties

1984

Qualcuno doveva pur farlo. Ci pensò Paul Westerberg coi suoi Replacements a compiere la provocazione di ri-utilizzare uno dei titoli più famosi dei Beatles per il suo terzo album.
Provenienti dalla scena punk americana in questo album, proprio com'era tipico dei liverpooliani, i Replacements giocarono con stili differenti: dal pop saltellante dell'iniziale "I Will Dare" all'hardcore di "We're Comin' Out", passando per il malinconico piano bar di "Androgynous" e per l'hard rock sguaiato di "Black Diamond" (cover, condensata, dai KISS). Il tutto condito da sugose dosi di sentiti problemi adolescenziali (la commovente "Unsatisfied") e ironia, particolarmente esplicita in "Gary's Got A Boner" (letteralmente "Gary ce l'ha duro"). Un album variegato, divertente e intenso che influenzerà di brutto i gruppi college rock, garage e pop-punk successivi.
Qualcuno doveva pur farlo. Ci pensò Paul Westerberg e ai Fab Four, in fondo, non andò affatto male.

 (purtroppo non son riuscito a trovare la ristampa del 2008 con il fomentante outtake "Perfectly Lethal")

domenica 10 aprile 2011

Clubroot - "II - MMX"

Guida galattica per indie-sfigati

2010

Non so voi ma io non sono mai stato dalle parti di Aldebaran e non ho la più pallida idea di come si stia lì. Se però anche voi, come me, state pianificando un viaggio più esotico del solito per quest'estate magari proprio nei paraggi della famosa stella, vi consiglio fortemente di acquistare questa guida scritta, magnificamente, dal signor Clubroot ed edita non da Lonely Planet bensì dalla più piccina Lo Dubs.
L'esploratore inglese vi mostrerà tutti i meandri della galassia, senza soffermarsi solo sui luoghi d'interesse turistico, con il suo profondo dubstep siderale.
Se ci pensate è buffo, perché la dubstep è una musica tipicamente urbana, pensata per spazi angusti e opprimenti, ricoperti d'asfalto, puzzolenti di fumo e smog; mentre qui viene re-inventato per descrivere lo spazio infinito (provate a confrontare questa copertina con quella di "Triangulation" di Scuba). Qui c'è il suono dell'universo che si espande, collisioni d'asteroidi, esplosioni di stelle, scie di comete e poi silenzio, silenzio cosmico. La musica umana che ci va più vicino, non ci crederete, secondo me è quella prodotta dalla cornamusa elettronica di Hevia.
Ladies and Gentlemen, we are floating in (dubstep) space

sabato 9 aprile 2011

The Runaways - "The Runaways"

BOMBACILIEGIA!

1976

Prima delle Runaways non c'era un cazzo. O meglio ce n'erano fin troppi.
Nessuna donna faceva del vero rock & roll. Si trovavano solo cantautrici, interpreti soul o qualche poetessa invasata ma di rockettare neanche l'ombra.
Poi arrivarono le Runaways che, ok, furono sì create quasi a tavolino da un uomo, l'eccentrico produttore Kim Fowley, ma comunque ci misero del loro per mostrare al mondo di cosa erano capaci cinque fiche esagitate.
Le membre più importanti erano Joan Jett, chitarrista, e Cherie Currie, giovanissima cantante (16 anni!). Il loro hard rock, sebbene non originale, arrivava diretto come un calcio sulle palle ed era scevro di virtuosismi, precedendo in un certo senso la furia senza filtri del punk che doveva ancora venire. A mettere pepe al tutto ci pensavano i testi, osceni, che nessuna donna avrebbe mai pensato di poter cantare prima di loro: "ti avrò, ti afferrerò fino a quando non ti farà male" strillava come una matta infojata Cherie Currie nell'inno della band "Cherry Bomb".
Si sciolsero nel 1979 dopo estenuanti tour zeppi di droghe. Non ebbero gran successo di pubblico né di critica, non furono capite o più probabilmente certa stampa puritana scelse deliberatamente di snobbarle. L'unica ad aver avuto un certo successo è stata Joan Jett che nel 1982 si mise a cantare il suo amore per il rock & roll e della sua cattiva reputazione: simpatica ma nulla a che vedere con il fervore feromonico dei suoi lavori precedenti. Nel 2010 è uscito un film biografico assai decente con Kirsten Stewart e Dakota Fanning a ribadire l'importanza che hanno avuto su un sacco di giovani band femminili che sono seguite come Hole, Le Tigre, The Breeders, Sleater-Kinney, Bikini Kill, Plastiscines e molte altre.
Le donne non si toccano manco con un fiore, perciò state fermi buoni e lasciatevi castrare le orecchie dalle Runaways senza fiatare.

Compralo subito o downloadalo prima

venerdì 8 aprile 2011

Free Energy - "Stuck On Nothing"

Affanculo la tristezza!

2010

"we are young and still alive
'n' now the time is on our side"
e con questi due versi potrebbe finire la descrizione del debutto dei Free Energy da Philadelphia, pubblicati e prodotti da James Murphy (il signor LCD Soundsystem) e dalla sua DFA. Questo disco è tutto in quei due versi: trasuda gioventù e spensieratezza. Affanculo i problemi, affanculo la tristezza, affanculo la depressione: se non viviamo la vita adesso che possiamo quando dovremmo farlo? Quando avremo un mutuo da pagare da qui all'eternità? Quando andremo in pensione (a 75 anni)?
Questo disco fa piazza pulita di tutti i rimasugli di revival new-wave, dark-wave e post-punk, spazza via con un rutto tutte le angosce che questi suoni cupi hanno portato nelle mente dei giovani hipster, si sniffa le ceneri di Ian Curtis, butta nel cesso il ricordo dei The Sound, da fuoco agli LP dei Christian Death, usa "Disintegration" dei Cure come sottobicchiere e spruzza birra sulle facce da funerale di tutti gli Editors, Interpol, White Lies de stocazzochetesencula. Con rispetto, certo... ma anche no, perché si è giovani e non bisogna essere per forza rispettosi, dio paninaro!
Questo disco fa tutto questo revivalando ciò che veramente andava revivalato: il power-pop anni '70, i Big Star, i Journey e i Cheap Trick! Tanti bei riff che non hanno paura di essere tamarri, così come non c'è più nessuna paura di usare la parola "baby", di inserire parti di sassofono (qualcuno mi dice che fine aveva fatto 'sto strumento?) o di infilare un assolo dilagante che obbliga all'air-guitar. Finalmente si può tornare essere romantici senza sembrare per forza dei depressoni scassaminchia. Si può tornare a ridere, a limonare duro, a sbronzarsi prendondola a bene, a girare in macchina senza andare da nessuna parte, a sdraiarsi su un prato per rincoglionirsi di sole con una budweiser in una mano e una ciospa nell'altra. Senza sentirsi frivoli. 
Si è semplicemente young and still alive, di nuovo.


giovedì 7 aprile 2011

The Postal Service - "Give Up"

Serenate electro-pop

2003

Questo disco, secondo me, è una piccola pietra miliare dell'ultimo decennio. Inaugurò, infatti, l'accostamento di un certo tipo di suono elettronico brillante e "tintinnante" (prodotto da Dntel, pseudonimo di Jimmy Tamborello) con delle tenere liriche sognanti (scritte da nientepopodimeno che Benjamin Gibbard, cantante dei Death Cab for Cutie). Da questo disco, insomma, comincia l'electro-pop come lo conosciamo oggi; simile nella forma ma diverso nella sostanza dal suo antenato degli anni '80.
Leggenda vuole che il sodalizio fra i due autori sia avvenuto "a distanza": infatti, Tamborello mandò, per posta, un cd con la sua musica elettronica a Gibbard, il quale, impressionato, ci incise sopra voce e melodie di chitarra e poi rispedì indietro il tutto. Da qui il nome "The Postal Service".
Al di là della sua importanza "storica", "Give Up" è un disco splendido, di una delicatezza quasi imbarazzante: i ritmi elettronici sono caldi e avvolgenti e la morbida voce di Benjamin è davvero un calmante sonoro, rilassa e coccola anche mentre sciorina il suo campionario di argomenti tristi.
Un disco per quando vi sentite perduti, fragili e softcore: vi bisbiglierà delicatamente nell'orecchio "non sei solo".


P.S.: di questo brano esiste anche una bella cover acustica firmata Iron & Wine

mercoledì 6 aprile 2011

Kele - "The Boxer"

Un dancefloor bagnato di lacrime

2010

Com'è ironico: due giorni fa scrivevo col cuore in mano di quanto fossero belli i Bloc Party e di come cominciassi a comprenderli solo ora, quand'erano ormai spariti dalle scene, splittandosi.
Ma proprio oggi non arriva l'annuncio del loro ritorno, della loro reunion, della fine del loro iato?
Avevo, effettivamente, intenzione di tornare a parlare della band inglese, dato che mi sta particolarmente a cuore: non immaginavo sarebbe successo così presto. Son contento, comunque.
Ebbene, parliamo allora di quello che è accaduto in questi 17 mesi di pausa:
-Gordon Moakes, il bassista acqua e sapone, ha formato con un altro tipo i Young Legionnaire, band post-hardcore;
-Matt Tong, il batterista asiatico, s'è fatto le seghe, pare;
-Russel Lissack, il chitarrista col frangettone, ha fatto uscire il primo album con la sua altra band, i Pin Me Down, che fanno indie-pop-rock, con una gnoccona alla voce;
-Kele Okereke, il ganzissimo cantante di colore gay (cioè è di colore e gay, non è di uno strano colore omosessuale chiamato, appunto, "gay"), s'è dato anema e core alla musica elettronica e ha fatto uscire questo "The Boxer".
Che gli piacesse danzare al tipo non era certo un mistero dopo le collaborazioni con i Chemical Brothers e Tiësto e dopo quella mezza delusione del terzo album del suo gruppo, "Intimacy", i cui suoni erano palesemente electro-clash.
Questo disco non è stato particolarmente amato dalla critica, tuttavia, secondo me è solo differente dai Bloc Party, tutto qui. Anzi, ora che ci penso si potrebbe dire che in gran parte questo è un disco dei Bloc Party senza chitarre e con suoni elettronici (fra l'altro prodotti da un genietto mica da poco, tale Hudson Mohawke) di derivazione "tardi-anni-'90". Ciò che più stupisce è il modo in cui, al di là della freddezza del sottofondo sonoro, la voce di Kele riesce a riscaldare il tutto e a colorare di dense emozioni brani che, in teoria, sarebbero buoni solo per bruciare grasso sulle chiappe. Prendiamo ad esempio il fantastico singolo "Everything You Wanted": parla di rimpianti per una relazione finita.
"Avrei potuto darti tutto ciò che volevi, tutto ciò di cui avevi bisogno" canta il tipo mentre tu intanto balli sodo. Solo che il ritornello poi si fa sempre più insistente e intenso che a un certo punto cominci a sentire una stretta allo stomaco, avverti un'atmosfera opprimente e ti viene quasi istintivo fermarti per rispettare la sua sofferenza. Insomma, con questo disco niente male (nemmeno un capolavoro) il cantante del gruppo che ha creato il brit-emo (il termine l'ho coniato io, chiaro) se n'è uscito fuori pure con l'emo-electro (non si può sentire, concordo).
Ballate e commuovetevi.


P.S.: no comment sulla maglietta e il cappellino del tizio nel video

martedì 5 aprile 2011

RADWIMPS - "RADWIMPS 4 〜おかずのごはん〜"

NipponIndie

2006

Non avrete mai sentito parlare dei giapponesi RADWIMPS (scritto tutto maiuscolo: i giapponesi lo fanno spesso con le parole di derivazione inglese) a meno che non siate dei nerd fissati con il Paese del Sol Levante, dei manga, del sushi, dei samurai e degli tsunami (hurrah per gli stereotipi!). Io li ho scoperti per caso mentre stavo ad una fiera del fumetto piena di cosplayers dove mi stavo annoiando a morte (se sono un nerd non lo sono certo di quel tipo). Ebbene, a una certa, su un maxi-schermo proiettano il filmato di un concerto di questi tipi che, manco a dirlo, non si stava cagando nessuno tranne me. Un bel concerto: belle riprese, belle luci, bel pubblico (cioè divertente: i giapponesi ai concerti sembrano ordinatissime marionette) ma soprattutto belle canzoni. I RADWIMPS fanno un bel pop-rockino in cui a risaltare sono le limpide melodie di chitarra, magnificamente ricamate e mai stucchevoli (non come altri gruppi occhiomandorlati, quelli che magari fanno le sigle dei cartoni animati e si vestono in modo improponibile). Cantano in giapponese e qualche volta, di rado, in inglese con un accento non troppo fastidioso ma le loro canzoni sono comunque grintose e fanno sognare grandi spazi aperti senza che sia necessario capirci mezza parola.
I RADWIMPS sono in giro dal 2001 e dal 2003 a oggi hanno pubblicato 6 album e riempiono gli stadi giapponesi. Questo è il quarto e secondo me è quello che ha il miglior equilibrio fra pezzi energici e ballate da pomiciata.
楽しむ


P.S.: ad ogni modo sul loro sito è possibile ascoltare tutti i pezzi

lunedì 4 aprile 2011

Bloc Party - "Silent Alarm"

A British way to Emo

 2005

Comprai quest'album perché vidi il video di "Banquet" su quel canale alternativo di MTV, mi pare si chiamasse YOS all'epoca poi cambiò nome in FLUX se non sbaglio. Comprai quest'album ma inizialmente non mi fece provare nulla di particolare: bello sì, ma non mi coinvolgeva, non si adattava alla mia situazione, era come un vestito troppo largo. In effetti, poi vidi un'intervista in cui Kele Okereke, il cantante nero con la voce più bianca d'Inghilterra, affermava che la loro musica voleva descrivere cosa significasse avere vent'anni in quegli anni. Bè io ne avevo 16 in quegli anni, che ne potevo capire? Fatto sta che poi me ne andai a Barcellona in viaggio scolastico e, wow, "Silent Alarm" si adattava perfettamente a quella città così ariosa e candida (come questa copertina). Fu come se una molla fosse scattata in me: mi innamorai del disco e ora, ogni volta che l'ascolto mi torna in mente la città catalana, vai a capire perché.
I Bloc Party sono ora ufficialmente in pausa e sono una delle prime vittime della memoria alzheimerica degli anni '00: già molti vecchi fan indie-fichetti che anni fa li acclamavano oggi non se li cagano più. Mica perché facessero schifo, anzi; ma perché con tutti i nuovi impulsi e le "next big thing" quotidiane sono stati semplicemente eclissati dal nuovo che avanzava.
In questi anni hanno, infatti, sfornato una quantità notevole di belle canzoni ma nessuna è entrata veramente nella memoria collettiva perché la verità è che queste non sono canzoni "epiche", sebbene il suono potente sembra dire il contrario. Dense di chitarre taglienti che si affastellano e di ritmiche tonanti che colpiscono allo stomaco, le loro canzoni sono come un getto d'aria compressa sparato negli occhi eppure sono intime, fragili e viscerali specialmente grazie alla voce "fondente" di Okereke. Ecco, a vent'anni, ho finalmente capito che i Bloc Party sono Emo (emo vero, quello degli anni '90, quello del sacro fuoco delle passioni depresse. Certo il chitarrista, a dire il vero, pare proprio un vero-finto-emo-poser), anche se in un modo tipicamente albionesco, disilluso, freddo, con echi di new-wave e lontano dalla zuccherosità americana. Parafrasando un loro brano (non presente in questo disco), i Bloc Party esprimono "a private kind of happiness", una serena inquietudine. Tant'è che ho avuto la fortuna di vederli dal vivo ad un grande festival ma la loro musica in quel contesto risultava snaturata e tutto si è risolto in uno stupido pogo inspiegabilmente violento.
Musica per animi senssibbili che, solo ora che gli hipster più aridi non se la cagano più, comincia a svelarsi come un fiume di emozioni molto powa. Fatevi annegare.


P.S.: Purtroppo non sono riuscito a trovare in download l'edizione limitata che contiene quella ficata di pezzo di "Two More Years"
P.P.S.: [update] questo post può ora vantare di aver accolto il millesimo cliente di SfigatIndie. Grazie, chiunque tu sia. E grazie anche e soprattutto a coloro che in questi 26 giorni di vita del blog hanno permesso tutto questo visitando e apprezzando :D. Stay tonned!

domenica 3 aprile 2011

Cloud Nothings - "Cloud Nothings"

Il suono della velocità della gioventù

2011

Dei ragazzi e delle ragazze fanno cose: vanno in giro in macchina, vanno al mare, si siedono a guardare l'orizzonte, flirtano, si abbracciano, fanno un falò, suonano la chitarra... Hanno tutti i capelli lunghi con un bella treccia. A un certo punto questi ragazzi, senza un motivo preciso, cominciano a spompinarsi a vicenda le trecce. FINE
Questo è il video di "Should Have" dei Cloud Nothings. Questo per farvi capire quanto son pazzisfigati questi tipi che arrivano dall'Ohio e fanno una musica che oserei definire indie-pop-punk. Il loro esordio è un disco allegro, frivolo, scanzonato e rapido che parla, senza indagarne inutilmente i dettagli, di noi, noi "giovani": è un disco che lo metti su, ti diverti e dopo mezz'ora è già finito e non te ne sei manco reso conto, un po' come l'essere giovani in fondo, come un'eiaculazione precoce. Le canzoni sono energiche, divertenti, con pochi accordi, leggermente lo-fi eppure, forse, hanno una punta di malinconia di fondo. Ad ogni modo sconsiglio di ascoltarle quando si è depressi: vi sentireste come se qualcuno vi stesse prendendo in giro perché non avete un bello smile disegnato sul vostro grugno.
Un disco da ascoltare mentre si corre: si corre e basta, senza motivo, non per fare jogging o perché si è in ritardo. Si corre perché si è gggiovani: YeAh!


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