mercoledì 28 dicembre 2011

Verdena - 7EP

Operazioni commerciali per dischi che non è che lo siano proprio

2011 (dal 1999 al 2007, in realtà)

Sulla spinta propulsiva del successo (meritato) di WOW l'Universal ha deciso di pubblicare, ad aprile 2011, una raccolta dei vari ep che i Verdena hanno rilasciato dal loro omonimo debutto fino al penultimo album Requiem.
Con il packaging merdoso che ogni buona paraculata commerciale richiede, ovviamente. Il massimo guadagno con il minimo sforzo: una scatola di cartone contenente 7 cd dentro altrettante scarne custodie di cartoncino leggero, senza nessun booklet o riproduzione delle confezioni originali.
Insomma, eccessiva essenzialità a parte, era proprio la collezione che stavo aspettando. I Verdena con i loro ep possiedono, infatti, una discografia parallela poco conosciuta ma molto interessante. Nei loro "maxisingoli" (questo effettivamente sono: un singolo con l'aggiunta di 3 o 4 b-side) i 3 albinesi hanno voluto sperimentare suoni un po' più ostici. Come i rumorismi elettronici di "Malaga" e i battiti funerei di "Fluido" dall'ep Caños (2007), la suite da 10 minuti in 2 atti "Solo un grande sasso" (Miami Safari EP, 2002) o l'improvvisazione sbronza e zigzagante di "Omashee" (Luna EP, 2004) in cui, insolitamente, Alberto suona la batteria e Luca canta e suona la chitarra.
E quando non sperimentano semplicemente scrivono grandi pezzi ("Perfect Day", "Le tue ossa nell'altitudine", "Corteccia (nell'upnea)", "L'ora è buia") o si divertono e divertono con cover abbastanza valide di Cream ("Sunshine Of Your Love"), 13th Floor Elevators ("Reverberation"), Melvins ("Creepy Smell"), Neil Young ("Harvest") ed Elvis ("His Latest Flame"). Purtroppo non c'è la mia preferita, "Across The Universe", ma fa niente: per quella aspettiamo un'altra raccolta paracula.
Una bella discografia che potrebbe affascinare anche chi ha sempre snobbato quella principale.
Infine, una bonus track:
Yep, questo cretino coi baffi (era un esperimento: ho deciso di tagliarli dopo aver visto la foto) sono io con la Roberta prima della sua esibizione al Sziget Festival di Budapest

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lunedì 19 dicembre 2011

Bifrost Arts - "Salvation is Created"

A Christmas Gift for You from Great Comfort Records

2009

Poteva mancare un disco di Natale su SfigatIndie dopo il nostro gaio mixtape?
No. Ma di certo non vengo a proporvi "banalità" come quello di Sufjan Stevens, quello dei Beach Boys o quello del Vince Guaraldi Trio (tutte opere da riscoprire obbligatoriamente, chiaro).
E nemmeno la sopracitata magnifica imprescindibile spettacolare opera spectoriana. Tuttavia, il qui presente disco spartisce con quest'ultima diversi elementi. Innazitutto, è un'opera collettiva: la Bifrost Arts è un'organizzazione culturale ecumenica che riunisce diversi artisti folk americani (perlopiù poco conosciuti a parte Damien Jurado, David Bazan e la nostra cara Diane Birch). In secondo luogo è un'opera estremamente coesa: le sue nove canzoni seguono uno stile votato alla magnificenza degli arrangiamenti, al clamore percussivo e allo stesso tempo alla delicatezza delle melodie, secondo i dettami dell'indie-folk degli ultimi 10 anni. Ma anche osando un po': come in "Joy Joy!" dove spirali di ottoni si accavallano ricordando il Philip Glass di Koyaanisqatsi o come nella title track in cui la voce di Aimee Wilson si fa dapprima struggente e poi esplode in un glorioso "hallelujah!". In terzo luogo è un capolavoro del genere: una bellezza ammutolente che affascina e intimorisce con le sue rivisitazioni solenni e quasi tristi di canti tradizionali religiosi (niente canzoncine da pubblicità del panettone qui). Se infatti Phil Spector voleva celebrare con un disco luminoso e fragoroso un'epoca che si preannunciava piena di colori, di gioia e di ricchezza (nonostante uscì lo stesso giorno dell'assassinio di JFK) quello della Bifrost Arts è un disco di Natale serio, spirituale, che vuole riportare questa festività alla sua vera essenza. Al mistero della nascità di Gesù e alla Gloria e alla Redenzione che esso ha portato. Poco importa se non siete credenti: in questi solchi digitali è inciso un messaggio di pace e infinita bellezza che riguarda tutti, indipendentemente da ogni tipo di confessione o non-confessione.
Per ritrovare l'umiltà, lo stupore e il silenzio in occasione della festa più sacra.

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P.S.: si ringrazia Ondarock per il suggerimento

sabato 17 dicembre 2011

Liturgy - "Aesthethica"

Turbo-psichedelia col bucio del culo sgarato dai Mefisto Manna

2011

Ma cossss'èèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèèè?!?!?!?
Cos'è quest'album e perché lo scopro solo ora? Cos'è sto delirio ultrasonico überveloce perfettamente studiato? Che d'è 'sta copertina Slayerica? Cos'è quest'orgia fra My Bloody Valentine, Battles, Cynic, Animal Collective, Fang Island, Lightning Bolt, Strapping Young Lad, Orthrelm, Dillinger Escape Plan, Electric Wizard, Boredoms e Tuamadre rigorosamente non protetta? Cos'è questo vortice di chitarre così serrato da farle sembrare cornamuse? E cos'è questa percussione che martella come se il mondo dovesse finire col finire del disco? Cos'è un vortice serrato? E questa successione di brani che sembrano tutti uguali eppure variano un po' nella velocità, nella lunghezza, nell'intensità, nell'acappellagine ma, in fondo, lo sono veramente: tutti uguali dico? Cos'è questo grido spaventoso che pare quello di un'aragosta rinchiusa in una pentola d'acqua bollente che pretende di essere definito "canto"?
Cos'è quest'opera originalissima, disturbante e persino demenziale dei newyorkesi Liturgy?
CHECCCCCAZZZZZZZOOOOOOÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈÈ!?!?!?!
Ve lo dico io cos'è, velo.
È un disco di assurdadelico freak-metal che mi farò regalare a Natale e che terrò sempre stretto stretto nel mio cuore...e nelle mie chiappe.


P.S.: questo fan-made video mi è sembrato così inspiegabile che non potevo non pubblicarlo. Tenete il volume al massimo.
P.P.S.: qui trovate una recensione molto più seria ed equilibrata

venerdì 16 dicembre 2011

Los Planetas - "Una semana en el motor de un autobús"

Un epico indie-rock andaluso

1998

Sin miedo, niente paura, questo blog non ha cambiato nome in "EmpollónIndie: Canciones para bailar solo que nadie va a cantar de memoria". È solo che il suo tenutario sta passando una momentanea e non troppo preoccupante infatuazione per la scena alternativa iberica.
Ebbene, "Una semana en el motor de un autobús" non è solo un album con un titolo bizzarro e con una copertina simile a quella di "Laze Biose" dei nostri Uochi Toki, ma anche uno dei migliori dischi di rock alternativo non anglofono degli anni '90. Non per voler essere anti-campanilista, ma certo è che rispetto ai "capolavori" nostrani di quello stesso periodo, questo disco dei Los Planetas da Granada è obiettivamente molto più spontaneo e meno pretenzioso. Trattasi di una miscela variegata ma allo stesso tempo coesa di diversi generi in voga all'epoca. Un po' di densità shoegaze (specie nella bellissima prima traccia, riportata sotto), un po' di melensaggini pop-rock ("La Playa"), un po' di gommosità noise-pop, un po' di fraseggi emo ("Parte de lo que me debes"), un po' di eleganze classicheggianti ("Linea 1") e anche un po' di post-rock easy-listening nelle ultime, lunghe, tracce. Giusto la voce, abbastanza piatta e flemmatica per tutto il disco, può risultare indigesta e a volte si sente la mancanza di un po' di potenza, ma è forse proprio quella a far da collante a tutta questa varietà.
In generale bastano un paio di ascolti per farci l'abitudine e per capire ci troviamo di fronte a un disco il cui songwriting sensibile, malinconico, romantico e arioso con tante esplosioni chitarristiche non lo fa scadere nel mero derivativismo. Probabilmente se non ci fosse la componente esotica del cantato in castigliano non risulterebbe altrettanto eccitante. Per fortuna c'è: ergo si gode.
"Es imposible que hayas olvidado
lo que los dos podíamos hacer"

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lunedì 12 dicembre 2011

Family - "Un soplo en el corazón"

¡Me gusta el pop sintético!

1993

Ce lo scordiamo troppo spesso ma esiste una cosa chiamata Spagna anche nel mondo della musica la quale - e questo vi sembrerà quasi incredibile - ha prodotto anche altre cose oltre al flamenco e agli Ska-P. Ebbene, oggi scopriamo un disco di synth-pop proveniente dalla penisola iberica: dai paesi baschi, per la precisione.
Javier Aramburu (voci, chitarre e programmazione) e Iñaki Gametxogoikoetxea (basso, programmazione e ¿comecazzosileggequelcognome?) sono i Family e il loro unico album "Un soplo en el corazón" è considerato uno dei più influenti della musica spagnola. E non a torto: si controllino le voci El Guincho e Delorean (anch'essi baschi, fra l'altro).
A dire il vero questo disco al primo ascolto mi ha fatto ridere non poco con quel cantato suadente che non cambia mai registro sotterrato sotto dei tastieroni MIDI più anni '90 degli anni '90, più anni '90 degli Sgorbions, più anni '90 del Crystal Ball, dei Biker Mice, del Winner Taco, del TMC2, della Palla Pazza Che Straparlazza, ecc., ecc.
Poi mi son reso conto che quel suono così plasticone di drum-machine e sintetizzatori è invecchiato così male da essere ancora attuale: pensate a fenomeni come la chillwave e la chiptune che si sostentano col modernariato. Non solo: l'amalgama fra chitarre ed elettronica precede di diversi anni quello dei Notwist (anche se pare improbabile che dei tedeschi siano stati influenzati da un disco ultramediterraneo).
Superato l'iniziale smarrimento "Un soplo en el corazón" è un disco molto caldo e malinconico con testi poetici e romantici, al limite dell'ingenuo. Un soffio al cuore.
La semplicità di titoli come "Carlos baila" (Carlo balla), "El bello verano" (La bella estate), "Yo te perdí una tarde de Abril" (Ti persi una sera d'aprile) e "Dame estrellas o limones" (Dammi stelle o limoni) fa quasi arrossire e ricorda la castità della nostra musica pop anni '60. Gli spagnoli, invece, negli anni '60 avevano ancora la dittatura dunque hanno recuperato 30 anni più tardi con un disco muy bonito y nocturno.
¡Escuchatelo!

giovedì 8 dicembre 2011

Mixtape di Natale 2011

Canzoni di Natale da ballare da soli sotto l'albero che nessuno canterà a memoria davanti al presepio

2011

Il Natale, si sa, è fra tutte la più mainstream delle festività. La festeggiano tutti: gli egiziani, gli indiani, i sudafricani, gli americani, i brasiliani e pure  i giapponesi che non c'entrano una sega co' Gesùcristo. Perciò, sebbene questo blog tenti di allontanarsi dal folklore di massa spesso e volentieri, con una festività così accomunante, luminosa e gioiosa non si può certo far finta di niente. Per questo SfigatIndie vi regala un mixtape di carole alternative da ascoltare in streaming mentre addobbate l'albero o incartate il maglioncino di American Apparel per nonna Ortensia
Sghiacciate play!

1 - Fleet Foxes "White Winter Hymnal"
2 - The Beatles "Christmas Time (Is Here Again)"
3 - The Magnetic Fields "Everything Is One Big Christmas Tree"
4 - Antonello Venditti "A Cristo"
5 - Sufjan Stevens "Joy To The World"
6 - I Cani "Il pranzo di Santo Stefano"
7 - Moraes Moreira dei Novos Baianos "Boas Festas/Brasil Pandeiro"
8 - I Camillas "Pop Natale"
9 - Elio e le Storie Tese "Christmas With The Yours"
10 - Fear "Fuck Christmas"
11 - The Sonics "Don't Believe In Christmas"
12 - blink-182 "Happy Holydays, You Bastard"
13 - Thieves "Lights On All The Houses"
14 - Sparks "Thank God It's Not Christmas"
15 - Kate Nash "Early Christmas Present"
16 - Morgan "Canzone per Natale"
17 - Pink Martini "Little Drummer Boy"
18 - Vinicio Capossela "Christmas Song"
19 - The Zen Circus "Canzone di Natale"
20 - Bobby Helms "Jingle Bell Rock"
21 - Josh T. Pearson "O Holy Night"


mercoledì 30 novembre 2011

Black Cobra - "Bestial"

Introduzione Sfigata alla Musica Tritaossa (vol.5)

2006

Immaginatevi il rinfresco di una bel matrimonio su una spiaggia hawaiana mozzafiatante. Il sole comincia a tramontare e il cielo si colora di un verde-viola elettrico mentre bambini dalla pelle scura e dai lineamenti un po' asiatici corrono felici e si nascondono sotto i tavoli su cui è ingombri di tartine colorate, danzatrici in gonnella tradizionale ballano la hula su un sottofondo suonato dall'ukulele di un ciccione con la faccia simpatica e gli occhi strizzati. Fra gli invitati: smoking inamidati si alternano a camicie floreali, in un kitschissimo folklore crossover imposto dai dettami imbastardenti dello stile occidentale. Gli sposi guardano quel mare arancione che profuma di gelsomino felici di una felicità che solo una cerimonia da 5 zeri pagata dai genitori sa dare. Accanto a loro un quartetto d'archi suona un soave motivetto.
Ad un certo punto un bambino nota la superficie del punch rosa vibrare per alcuni secondi per poi, di colpo, fermarsi. Un secondo più tardi un'insidiosissima quanto silenziosissima sottile colata di lava rossa come un tuorlo d'uovo, sputata misteriosamente da un foro nella parete del Kīlauea, cola giù lungo la spiaggia e investe i piedi della maggior parte degli astanti che cominciano a contorcersi emettendo urla strozzate e inumane. Alcuni bambini inciampano e cadono di faccia nel liquame ultrabollente e subito cominciano a soffriggere sfrigolando in modo orrendo. Il magma ricopre anche le scarpe con le ghette dei musicisti ma questi, come zombie demoniaci, continuano a suonare la loro musica che rapidamente si trasfigura. Diventa qualcosa di profondissimo e scuro come la notte più criminale, ma di un nichilismo mostruosamente a fuoco. Una musica pesantissima eppur non veloce. Lavica. Bestiale.
Gli sposi scappano in mare e, mentre l'orchestrina intona "El Equis" dei Black Cobra, la roccia fusa incontra l'acqua e si solleva un vapore densissimo e nauseante dal quale spunta fuori Cthulhu, il mastodontico Signore delle Tenebre. Il ributtante Dio del Male con un tentacolo stritola come una polpetta croccante lo sposo e con un altro afferra con malefica delicatezza la sposa, la quale strepita e si tinge di rimmel sciolto le guance. Cthulhu la porta giù nelle profondità indicibili degli abissi più neri dove festeggerà con lei la sua prima notte di nozze.


P.S.: per una vera recensione si consiglia DeBaser

martedì 29 novembre 2011

Antonello Venditti - "Unica"

I miei genitori lo ascoltavano prima che diventasse mainstream

2011

Il triangolo, chissà perché, ha spesso avuto una certa presa sull'immaginario hipster delle band degli ultimi anni (e non solo). La ragione è probabilmente riconducibile a "Servi della gleba a testa alta/ verso il triangolino che ci esalta".
Per questo quando ho visto questa copertina e capito che Antonello Venditti era, plausibilmente, diventato un hipsterone con i capelli rasati di lato, i baffi, le Clarks e qualche mongolata colorata al posto dei suoi storici Ray-Ban ho pensato che, dopo melensaggini come "Che fantastica storia è la vita" o "Dalla pelle al cuore" era giunto il momento di tornare a dare una possibilità al vecchio Antonellone nazionale.
Anacronistico e contemporaneo a un tempo, "Unica" resuscita stilemi ammuffiti degli anni '80 (batteria - suonata al solito dall'amico Carlo Verdone - con effetto eco, riffoni di chitarra un po' ligabovini un po' funk, ritornelli con cori da stadio e assoli di sax come se Clarence Clemons fosse ancora vivo, suonati dall'argentino Gato Barbieri) ma gli da una parvenza di sostenibilità, mixando tutto a un livello 2011esimamente umano. In verità, non mancano bei passaggi atmosferici al synth, o belle melodie al piano (come quella che dell'incipit che ricorda "Struggle For Pleasure" di Wim Mertens) e alla chitarra (come quella, Coldplayana, che scansiona i versi di "Forever", poi rovinati da un ritornello pomposo e kitsch) e il cantato, seppur meno potente, ha quasi abbandonato i famosi "ragli" di una volta per soluzioni più morbide.
Questo disco mi ha fatto ricordare come l'immediatezza di certo pop sappia rendere con 10 note quei sentimenti che altri generi più di nicchia rendono con 100. E a volte è bello accoccolarsi nella rassicurante banalità: se non altro questo disco è molto meglio di "In questo mondo di ladri" che ascoltai fino alla nausea durante i viaggi in macchina con i miei genitori.
Qualche riflessione sui brani va prima di tutto a "Cecilia", ennesimo brano con un nome di donna nel titolo che si va ad aggiungere alla lista cronologica dopo "Marta", "Lilly", "Sara", "Giulia", "Eleonora", "Esterina" e "Lula". E soprattutto non si può non citare "La ragazza del lunedì (Silvio)", brano sconvolgente per diverse ragioni. Prima di tutto perché immagino che all'inizio si chiamasse semplicemente "La ragazza del lunedì" a cui è stato poi aggiunto estemporaneamente il secondo titolo di "Silvio" come trovata commerciale per "celebrare" la dipartita di Berlusconi dal governo. Il fatto è che così il brano, mischiando maschile e femminile sotto un sottofondo quasi eurodance con l'inquietante voce di Venditti vocoderizzata, suona davvero ambiguo, strano e irresistibilmente gay. Come se non bastasse, tutto l'arrangiamento di cori plagia in modo pauroso "Viva La Vida".
Un ultimo appunto va al testo di "E allora canta!" che vuole infondere speranza a chi è rimasto fregato dalla crisi invitando a scordare le crudeltà di questo mondo mettendosi a cantare una bella canzunciella. E vabè, Antonè, facile per te che magari in tempi di vacche magre potrai anche chiedere la Bacchelli, eh.

venerdì 25 novembre 2011

Sparks - "Indiscreet"


1975

Ho appuntamento con una mia amica tra due ore e ho deciso di aspettarla nella Micra blu di mia madre, parcheggiata davanti alla facoltà di lettere e filosofia di Roma Tre; questa strana situazione mi fa riflettere: perché penso sempre al blog di Francesco quando mi trovo in situazioni poco amene? Ah boh, passiamo al nitty-gritty del discorso.
Ho sempre avuto una predisposizione per la musica frocia e quindi la scoperta degli Sparks nell’estate 2010 è stata per me una vera e propria esperienza mistica.
Gli Sparks nascono all’inizio degli anni ’70 come band, velocemente però questa si trasforma in un duo formato da due fratelli: Russell Mael, voce, e una delle persone alla quale stringerei la mano più volentieri (se solo non avessi paura che mi attacchi l’omosessualità…), ovvero Ron Mael, tastiere e la maggior parte dei testi, una sorta di Gomez della famiglia Addams misto a Hitler misto ad un molestatore di galline. Californiani, sono uno dei pochi esempi di glam rock americano, fenomeno prettamente londinese*, tanto da essere spesso additati come ricopioni, brutte parodie dei Roxy Music eccetera eccetera; è in realtà un discorso molto banalizzante dato che gli Sparks regalarono all’industria musicale di quegli anni qualcosa che non si vedeva più da diverso tempo (vedere i Kinks essì essì sono monotematica): temi inusuali per testi di canzoni (tipo gli ananas), satira, cinismo, ironia…ma dagli anni ’60 ad allora la società era anche molto cambiata ed era adesso possibile scrivere anche una canzone chiamata "tette".

"For months, for years,
tits were once a source of fun and games at home
and now she says, tits are only there to feed our little Joe
so that he'll grow
(…)
They all taste good after three or four
so drink Harry, drink Harry, drink 'til you can't drink no more
of anything, no more of anything"

Uno stile musicale a cavallo tra il synth-poppone e l’hard rock glitterato, dando una strizzatona d’occhio al cabaret brechtiano, come si può anche notare nelle performance live teatrali, studiate, quasi sceme.
Di similissima beltà consiglio caldamente anche "Kimono My House" (che anzi credo sia il migliore fra tutti) e "Propaganda", con la sua bella copertina del cazzo.
Poi non lo so, se conoscete qualcosa di ancora più checcoso mandatemi pure una mail.

* i New York Dolls sono tutto un altro paio di maniche e bisognerebbe parlare per ore di tutti i maledettissimi (leggi: galvanizzantissimi) generi proto-punk. Lou Reed solista invece nasce come pupillo di David Bowie, quindi in un certo senso filo-britannico BLA BLA BLA!


P.S.: Nel 2009 sempre gli Sparks hanno pubblicato una rock opera molto fica sul regista svedese Ingmar Bergman, se a qualcuno possa mai interessare.

mercoledì 23 novembre 2011

Sepalcure - "Sepalcure"

Suoni vecchi in un miscuglio nuovo, per ballare (duro) da soli

2011

Prendete i vostri calzini anti-scivolo coi gommini se non volete rischiare di spezzarvi la schiena sul parquet della vostra cameretta. I Sepalcure (collaborazione fra due importanti produttori newyorkesi: Machinedrum e Praveen) sono lo straordinario punto di convergenza fra la 2-step londinese, l'house di Chicago e la techno da Detroit. L'accostamento di queste tre cose non vi dice niente? Non ha la minima importanza perché una volta fatto partire il disco non potrete far altro che ballare sulla sua commistione liquida di profondi beat dispari, sinuose voci soul e spiralidosi giri di synth. Insomma, non si tratta del solito disco buono sia per la poltrona che per la pista o uno di quei dischi che se non li balli non hanno senso, no. Questo disco manda degli impulsi elettrici al cervello e non gli permette di tenere a freno i muscoli, indipendentemente da dove uno si trovi al momento dell'ascolto.
Insomma BIC (bello in culo) ma anche NSFW.


mercoledì 16 novembre 2011

Silver Apples - "Silver Apples"

A me mi piace l'elettropop...dell'anni '60

1968

Quanto si è dilatata la concezione dello scorrere del tempo negli ultimi 50 anni? Sentire frasi come "gli Stooges furono precursori del punk" o "i Jesus & Mary Chain precorsero lo shoegaze" fa un po' ridere quando uno si rende conto che queste band anticiparono un certo fenomeno soltanto di una manciata di anni, spesso neanche cinque. Qui, invece, si narra tutta un'altra storia in cui l'anticipo consiste di almeno due decenni. Una storia che comincia nella New York degli anni '60 quando un certo Simeon Coxe III, probabile nerdone ante-litteram cominciò a costruire da sé delle macchine sonore elettroniche chiamate "audio oscillatori" per implementarle nel sound della sua band di rock tradizionale. Ma - e qui viene il bello - quello che ne venne fuori fu qualcosa di estremamente compiuto e piacevole alle orecchie: una roba che i Kraftwerk al confronto sembrano, ed effettivamente erano, dei semplici (si fa per dire) sperimentatori. 
Il disco di debutto dei Silver Apples pare già ben oltre la fase di collaudo e - a parte per alcuni stilemi psichdelici e per la qualità della registrazione - sembrerebbe essere uscito al massimo 10 anni fa. Qui si parla, infatti, di elementi elettronici fusi nella struttura di canzoni rock con una disinvoltura incredibile, che al giorno d'oggi daremmo quasi per scontata. Ad esempio, in "Program" si sentono addirittura dei breakbeats e dei primitivi samples di programmi radio (anche in italiano)! Mentre in "Whirly-Bird" il gusto per le polifoniche ripetizioni alienanti sarà ripreso dagli Animal Collective. E, ancora, elementi di space-rock, industrial, spoken-word, folk, kraut-rock e drone (come nell'impressionante "Dancing Gods") concorrono a ingigantire la portata invisibilmente rivoluzionaria di una delle opere meno ricordate (perché meno comprese) di un decennio pieno zeppo di rivoluzioni.
Tutto questo senza manco fare un accenno a quanto sono belle le canzoni in sé: bè, sono molto belle, pura goduria psych-pop-avantgarde.

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P.S.: la riedizione cd che si può trovare in vendita comprende anche il successivo "Contact"

lunedì 14 novembre 2011

N.W.A - "Straight Outta Compton"

"Life ain't nuthin' but bitches n' money"

1988

Semmai dovessi fare - dopo quella dedicata al metal - una nuova rubrica chiamata "Introduzione Sfigata al Gangsta Rap" probabilmente comincerei e finirei qui.
La gang che formò gente come Dr.Dre (colui che ha scoperto Snoop Dogg ed Eminem se siete supernovizi) e Ice Cube fu, infatti, la più influente di tutte. Quella che, assieme ai Public Enemy (sulla costa opposta), ha dato l'impronta a tutto l'hip-hop successivo, non necessariamente "gangsta". Prima dei Niggaz With Attitude (N.W.A appunto) l'hip-hop era confinato in ambiti più cazzoni e spensierati: il rap di pionieri come Sugarhill Gang, Run-D.M.C. e LL Cool J era, sì, un modo per sfuggire dalla grigia realtà delle strade colorando un immaginario fatto di ritmi ballabili e vestiti sgargianti ma anche, ed essenzialmente, materiale da festa.
Con loro il rap scese nel lercio dei sobborghi di Los Angeles ("direttamente da Compton" appunto) e cominciò a narrare le storie della vita di strada delle numerose piccole bande che popolavano la città californiana: nacque la "street cred" (credibility), ovvero il livello di rispetto che un tale membro della comunità nera poteva guadagnarsi compiendo certe azioni più o meno criminali. Il linguaggio di "Straight Outta Compton" è slangato, violento ("Gangsta Gangsta"), rancoroso ("Fuck Tha Police") e vagamente misogino (anche se pezzi come "I Ain't Tha 1" fanno abbastanza ridere e descrivono comunque una realtà sociale). Tutta questa esaltazione della vita urbana odorosa di piombo fuso può non piacere ma questo disco resta un'importante testimonianza di come discriminazioni, disuguaglianza sociale, autorevolezza basata sulla ricchezza e sul potere, segregazione e libera vendita delle armi da fuoco possa creare uno scenario paradossale in cui essere dei delinquenti può essere considerato un modo fico di "esprimere se stessi".
I N.W.A dunque narrano della realtà in cui vivono, anche se probabilmente non in prima persona perché chi veramente faceva quella vita di strada di norma non perdeva certo tempo a scriverci sopra canzoni. E lo fanno con un disco divertentissimo, ritmatissimo e ultrafunkadelico che non può mancare nella collezione di chiunque voglia cominciare a immergersi nel mondo tanto distante quanto affascinante dell'hip-hop. Prendetelo come una lezione di antropologia, tenuta sopra una Chevrolet Impala cromata con le sospensioni idrauliche. Respect!

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lunedì 7 novembre 2011

Ohbijou - "Metal Meets"

Ohbijou? 'nobijou!

2011

In Canada si crepano di freddo, evidentemente.
Allora provano a scaldarsi o con il terrorismo sonoro più matto e frizionante del globo o con l'indie-pop più caldo e avvolgente dell'universo. Ecco allora che "Metal Meets" degli Ohbijou è il perfetto esempio di come ci si possa versare una tisana alle erbe direttamente nei condotti auricolari. Le sue canzoni gusto latte e miele hanno tutti gli elementi giusti per generare tepore: tanti strumenti, arrangiamenti sostanziosi, ritmi cullanti, una usignolesca voce femminile che non cambia registro manco una volta cascasse il mondo (e va bene così) e testi pucciosi-amorosi.
In questi giorni piovosi è il disco perfetto da ascoltare insarcofagati sotto a un piumone.


domenica 6 novembre 2011

Slayer - "Reign in Blood"

Introduzione Sfigata alla Musica Tritaossa (vol.4)

1986

SfigatIndie prende posizione e formula la seguente spocchiosa regola:
 "Chi non ha mai ascoltato Reign in Blood degli Slayer, indipendentemente dalle proprie attitudini musicali, non può essere considerato un critico credibile"
  Poi fate come vi pare ma davvero non si può prescindere da un'opera del genere: "Reign In Blood" non è solo il capolavoro dello speed-metal, il disco più veloce e violento degli anni '80, ma anche una pietra miliare della musica del XX secolo. Sul serio, potete metterlo sullo stesso piano di "The Dark Side of The Moon". Cioè in teoria "The Dark Side of The Moon" suonerebbe esattamente così se i Pink Floyd fossero stati brutalizzati con mazze da baseball infuocate ricoperte di filo spinato da Lucifero in persona prima di cominciare a registrare. Gli Slayer, con l'aiuto di quel ciccione di Rick  Rubin, il Re Mida dei produttori, in soli 28 minuti e 56 minuti sconvolsero la storia della musica e fecero suonare come "Love Is In The Air" tutte quelle canzoni che prima di loro erano considerate violente. Con foga punk (7 brani su 10 non superano i 3 minuti) i due chitarristi solisti Kerry King e Jeff Hanneman attorcigliano, come due fruste, assoli a velocità supersonica, che il cervello quasi fatica a seguire, sotto i pestoni dirompenti, liquidi, a cascata, a nastro di Dave Lombardo mentre la voce di Tom Araya urla acutissima e velenosa i testi più feroci e controversi mai sentiti prima.
"Auschwitz, il significato del dolore/Il modo in cui voglio tu muoia"
ovvero l'incipit di un album più brutale di sempre, ancora imbattuto, e anche se le accuse di antisemitismo che vennero mosse contro la band fossero tutto sommato false (sono dei bravi guaglioni, vi consiglio di vedere qualche intervista) è impossibile rimanere impassibili ascoltandolo.
Alla pari di tanti altri dischi che vengono proclamati fondamentali e, forse anche più di altri, "Reign in Blood" e la sua copertina spaventosa non può mancare nella vostra collezione di dischi metal e semmai non ne avete una potete tranquillamente cominciare (e in teoria anche fermarvi) qui. Affermazioni forti lo so, ma quanti dischi metal son stati così influenti da ispirare anche una cantautrice pop come Tori Amos?
Fate i seri: compratelo, ascoltatelo e morite. O morite.

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sabato 5 novembre 2011

Rustie - "Glass Swords"

Un dancefloor lastricato a Fruittella

2011

La dance del futuro sarà zuccherosa e lisergica. Se non vi eravate convinti con araabMUZIK o Hudson Mohawke, con lo scozzese Rustie (nuovo assunto presso la Warp, l'etichetta che sta alla musica elettronica non convenzionale come la Motown sta alla soul) ne avrete un'ulteriore e più compatta conferma. Altra certezza è che ormai non si può più prescindere dalla dubstep che infatti è il piano di lavoro di Rustie sul quale egli dispone con ordine e metodicità tecno anni '90, chiptune, hip-hop crunk maranza, dance da stadio alla Calvin Harris e vocine elio-vocoderizzate. A tutto questo son stati dati diversi nomi abbastanza ritardati come "Street bass", "Aquacrunk" e "Purple sound" anche se quello che va per la maggiore è "Wonky" che immagino - anzi spero - sia una crasi fra Willy Wonka e funky. In parole povere è una versione allegra e colorata della dubstep, notoriamente cupa e claustrofobica. "Glass Swords" si può descrivere facilmente come: un pulmino Wolkswagen modificato lanciato a 250 km/h contro il muro del kitsch ma che riesce a inchiodare prima di sfracellarsi, o quantomeno impatta senza causare danni mortali ai passeggeri sui sedili posteriori. "Glass Swords" è infatti magniloquente ma non spaccone (non ci sono mai drop tamarri e scorreggioni alla Skrillex), acidulo ma non astringente da stipsi assicurata: dance da mangiare con le orecchie e da ballare con le ghiandole salivari, insomma.
O anche: un rave party per orsetti gommosi. Se questo è il futuro ben venga, ma poi ricordatevi di lavarvi i dentini prima di andare a dormire


domenica 30 ottobre 2011

The Dillinger Escape Plan - "Calculating Infinity"

Introduzione Sfigata alla Musica Tritaossa (vol.3)

1999

Preparate l'estintore per le vostre orecchie perché "Calculating Infinity" ve le farà bruciare frizionandoci sopra a velocità impazzita i suoi riff isterici...
Ma prima forniamo ai nostri lettori aspiranti maniaci un po' di background.
I Dillinger Escape Plan non sono una band come tutte le altre: sono un'istituzione. Prima di tutto perché ha avuto così tanti cambi di line-up che oggi l'unico membro originale è il chitarrista fondatore Ben Weinman, che tuttavia ne ha mantenuto alto il nome. In secondo luogo perché loro non fanno mathcore, loro sono il mathcore. Il genere l'hanno praticamente inventato loro e "Calculating Infinity" ne è il manifesto. In pratica prende influenze hardcore punk, di quello più veloce e incazzato, e le mischia a influenze jazz, di quello più strambo e dissonante. Non c'è nulla che suoni come questo disco prima di questo disco: velocissimo, imprevedibile e cattivissimo (più del Grinch). Ditemi se non sono crudeli questi 37 minuti in cui non c'è un attimo per riprendere fiato, in cui le chitarre tessono riff mortiferi super-intricati e i cambi di tempo sono assolutamente arbitrari, dei veri e propri strappi nella struttura delle canzoni (che se questa parola deriva da "canto" allora sarebbe più consono chiamare "urlazioni") tali da far sì che alcuni brani comincino già cominciati (!!!). Gli unici momenti vagamente definibili "di tregua" sono le brevi e inaspettate svisate jazz più lente che però non fanno altro che rimarcare il fatto che la band stia manipolando a suo piacimento la resistenza dell'ascoltatore. 
Questo disco è un delitto perfetto e la vittima è il vostro cerebro, un esempio di come si possano mettere delle doti tecniche ineccepibili al servizio dello sbudellamento sonico.


P.S.: il seguente video mostra i Dillinger mentre suonano dal vivo (i loro show sono considerati fra i più devastanti del mondo ed è anche impressionante vedere come i vari strumentisti si dimenino come folli nonostante la difficoltà delle partiture) e sebbene qui siano con una formazione diversa da quello che registrò questo disco è utile vederli in azione per comprenderne, anche visivamente, la violenza emessa. Si sconsiglia la visione ai deboli di cuore.

sabato 29 ottobre 2011

Cryptopsy - "None So Vile"

Introduzione Sfigata alla Musica Tritaossa (vol.2)

1996

Sarebbe impensabile voler scoprire le gioie ma soprattutto i dolori (acufenici) della musica estrema ignorando il genere metal più pesante, devastante e faticoso da digerire: parlo del famigerato brutal death metal. Ed eccovelo qua in tutto il suo raccapriccio, servito su un piatto d'argento come la testa del battista Giovanni offerta da Erodiade (qui ritratta in copertina nel dettaglio di un dipinto di Elisabetta Sirani).
Se volete scommette sulla vostra sanità mentale e capire quanto volete spingervi a fondo dovete necessariamente passare per questo "capolavoro" dei canadesi Cryptopsy. Se il doom metal fa paura per la densità lavica del suo suono, il thrash metal spaventa per la velocità ipertecnica della chitarra e il death metal disgusta per la grassezza suina del suo cantato growl, "None So Vile" fonde tutti questi elementi e rincara la dose in un clangore sferragliante, vomitevole, gelido e confusionale. Ascoltando questi 30 minuti scarsi di puro delirio freddamente preparato avrete la sensazione che qualcuno vi stia azzannando la faccia ma non sentirete alcun dolore, sarete distanti, già morti dentro, alienati dalla sua psichedelia infernale. È un disco che metterà a dura prova la resistenza dell'ascoltatore più scafato e che di certo farà esplodere in un lago di sangue e cervella la testa del neofita. Vi consiglio di non sopravalutarvi e di attaccare dei giornali alle pareti, così per sicurezza.
Ma non pensate che sia un brutto disco, anzi: una volta entrati nel meccanismo ultraviolento che propone comincerete ad apprezzare la rapidità assassina dei suoi riff, il drumming incastrato in modalità "blast-beat perenne", i brani che si interrompono di colpo, gli intermezzi pianistici per riprendere fiato e la produzione decentemente equilibrata  (il basso, si sente il basso!). Nota finale sulla voce: un profondo grugnito biliare che a volte sa strapparsi in qualche bell'urlaccio spastico. Ovviamente i testi non si riconoscono manco lontanamente, nemmeno tenendo le trascrizioni sott'occhio.
Per farla breve: se volete cominciare una luminosa carriera che vi porterà nei migliori manicomi criminali pre-legge Basaglia questo è il banco di prova.


venerdì 28 ottobre 2011

Jon Schmidt - "August End"

Leggiadria per piano solo

1991

Sbem! Che cazzo di strumento il piano: può offrirti la banalità più sciatta o l'estasi più divina a seconda di chi lo tocca. Questa volta tocca toccarlo a Mr. Jon Schmidt. Nato a Salt Lake City nel 1966 e sconosciuto ai più fino a pochi anni fa venne accecato dalle luci della ribalta del palcoscenico di Youtube, nel 2009, quando miscelò un brano della giovane cantate pop-country Taylor Swift e uno dei Coldplay in "Love Story Meets Viva La Vida" ritrovandosi di colpo a essere uno dei pianisti pop più apprezzati del web 2.0.
"August End" è il suo primo disco di composizioni strumentali ed è bollato come "new age classical" ma non riesco a capire bene perché anche se effettivamente non suonerebbe male in uno di quei negozietti freakettoni con le fontane e i giardini zen da tavolo, le lampade di quarzo rosa che sprigionano ioni positivi, le borse con le pezze colorate e un odore forte di incensi da meditazione nell'aria. Quello che in realtà mi ricordano questi pezzi brillantemente prodotti e dal mood sereno e a volte un po' malinconico (ma di quella malinconia piacevole e tiepida) è l'immagine della bella famigliola che va a fare colazione nel Mulino Bianco. Colpiscono tutti al primo ascolto per il senso di radiosa familiarità che riescono a infondere nella parte del vostro cuoricino meno ribelle, più attaccata alla famiglia e tradizionalista: quella che non vuole scappare dalla città, quella che non vuole tatuarsi un cono gelato in faccia, quella che non vi fa dire "fac de polis!". 
E si sa - come ben ci hanno lobotomizzato sin da piccini - dove c'è barilla c'è casa. 
Sarà anche un po' melenso e patinato ma non c'è niente da fare: per quanto incazzati possiate essere questo disco vi condannerà a sentirvi almeno un pochinino meglio. Roba che mica tutti i pianisti sanno, o vogliono, fare.

lunedì 24 ottobre 2011

Strapping Young Lad - "City"

Introduzione Sfigata alla Musica Tritaossa (vol.1)

1997

Immaginate di avere una ragazza (lo so: è dura). Una di quelle tipe hipster-poserine che guardano Michael Cera nei film e dicono "Aaaaaawwww, checcarrinoooooo!" quando probabilmente direbbero "Eeeeeewwww, chesfigatoooooo!" se incontrassero un suo equivalente non altrettanto famoso nella vita di tutti i giorni, magari. Senza indagare sul come avete fatto a rimorchiarla immaginate (e qui non è difficile) di starci un sacco sotto e di farle un fottio di regali. Presto comincerete a portarla a tutti i vostri concerti sfigati di gruppi assurdi che le avete fatto conoscere. Tutte band puffolose e tenere come i Clientele, i Tunng, i Maritime, i Rural Alberta Advantage, i Metric o gli Stars che pensate potrebbero piacere al suo cuore delicato di femminuccia. Quello che non avete messo in conto è che probabilmente con tutte queste musichine xilofonate lei inizierà a pensare che la vera femminuccia siate voi. E comincerà ad ambire pesantemente virilità e puzza di sudore. E prima che riusciate a dire "Death Cab for Cutie" ve la vedrete fuggire assieme a un motociclista vestito con la pelle di un orso Grizzly (altro che Grizzly Bear) ucciso a mani nude. Questo perché vi siete mostrati troppo sensibili e deboli. Questo perché nella vostra libreria iTunes non c'era nemmeno un po' di sano metallo che le avrebbe fatto pensare "oh, allora non è proprio una mammoletta fatta e finita". Certo per non sembrare dei molluschi sarebbe forse più efficace andare ogni tanto in palestra ma volete mettere la fatica e i rovinosi effetti che avrebbe sul vostro pallore che trovate tanto affascinante...
SfigatIndie vuole allora creare un servizio per salvaguardare le vostre eventuali future relazioni, se siete utenti maschi, e per capire cosa pretendere dai vostri partner, se siete utenti femmine. E nel frattempo farvi scoprire le gioie del sanguinamento auricolare. Cominciamo la nuova rubrica "Introduzione Sfigata alla Musica Tritaossa" con una megabomba uditiva, allora.
Gli Strapping Young Lad sono una band canadese capitanata dal geniale cantante chitarrista Devin Townsend, conosciuto anche come "La chioma più bella del metal" (che di recente ha tagliato, purtroppo). Fanno extreme metal che detta così fa paura ma non permette di capire di cosa si tratta esattamente. State però certi che, se non siete avvezzi a questo tipo di musica, la prima volta che l'ascolterete schiamazzerete una risata isterica di terrore per poi schiantarvi sul pavimento, esangui. Ciò che rende questo metal veramente "extreme" non è tanto la velocità o la complessità tecnica quanto piuttosto la densità del suono: mostruoso, compattissimo e pluristratificato, grazie a una produzione perfetta che utilizza anche effetti elettronici un po' industrial. A farla da padrone però è la batteria devastante dell'arrapantissimo Gene Hoglan (detto anche "The Atomic Clock"), un eroe del doppio pedale, che sa ricreare un incessante rumore di elicottero. 
Ma "City" non è solo una titanica esplosione di potenza annichilente che farà sanguinare le vostre orecchie vergini, è anche un capolavoro della musica pesante grazie ai suoi testi brillanti e per nulla banali (senza parlare di titoli come "Oh, My Fucking God") e ai suoi svolazzi melodici che riescono a trovare spazio in mezzo al trambusto tramite la voce corrosiva di Townsend. 
Un disco corto ma colossale che vi devasterà al primo ascolto, infierirà sulla vostra carogna al secondo e affogherà la vostra anima nello Stige al terzo.


P.S.: è presente anche una cover molto fedele di "Room 429" dei Cop Shoot Cop

martedì 18 ottobre 2011

Hudson Mohawke - "Satin Panthers"

Lecca-lecca acidi a forma di piede che si succhiano con le orecchie

2011

Giuro che quando lo vidi dal vivo la prima volta l'effetto fu davvero strano, quasi comico: il produttore hip-hop di Glasgow più phresh del bigonzo (a partire dal nickname tamarro col turbo) non poteva essere veramente un ragazzino cicciottello in magliettazza bianca e bermuda! Potere alchemico della musica: uno sfigatello, probabilmente Twix dipendente, con goffe pose da street incredibility che nel mondo reale non si cagherebbe nessuna, non solo aveva delle smandrappone che salivano sul suo palco e lo distraevano flashando le tette a manetta mentre dj-settava, ma riusciva anche a far ballare di gusto una grossa platea di trucidoni in pantaloni XXL, catenazze e anfibi senza dover usare manco per un secondo la cassa diritta.
In realtà, a una più attenta analisi la musica grossa e grassa di Hudson Mohawke (all'anagrafe Ross Birchard) tradisce una certa nerdaggine drogata: è stradaiola solo sulla superficie mentre sotto è un miscuglio di gelatina traballante, dolcissima e piena di coloranti di quelli che tutte le mamme dicono che fanno malissimo anche se non riesci a capire bene che sintomi possano provocare, ma di certo in cuor tuo sai bene che non possono di certo essere salutari col loro aspetto chimicissimo
Se volete provare un'overdose di kitschume estremo vi consiglio di provare direttamente l'album "Butter": sperimentale, gommoso, lisergico e succosamente nauseabondo. Se invece non vi sentite ancora pronti, questo recente EP ("pantere di raso") è più facile e ballabile ma lo stesso provoca quell'effetto psichedelicamente maranza che solo la visione di una Lamborghini Gallardo color viola elettrico che si schianta nella campagna scozzese sa dare.


martedì 4 ottobre 2011

The Pains of Being Pure at Heart - "Belong"

Un'iniezione di empatia nel cuore

2011

Ora che questo disco non è più chiacchierato perfino dalle massaie al mercato rionale posso dirlo con franchezza. "Belong", secondo disco dei Pains of Being Pure at Heart (nome di Cristo, proprio), è il mio personalissimo disco dell'anno, del mio 2011. Da Aprile è sempre rimasto fisso sul mio lettore, non si è schiodato un attimo. L'ho ascoltato voracemente a tutte le ore del giorno, in motorino, nel letto, sul vater clò, facendo colazione, piangendo, ridendo, ruttando, ecc. Perfino quando non era fisicamente nelle mie orecchie lo canticchiavo nella mia testa. Sarà perché se dovessi scegliere la mia canzone preferita di sempre sceglierei a botta sicura "Temptation" dei New Order, perché ogni canzone di questo album ci assomiglia un po', ne riprende quella dolcezza sognante e ben ritmata. Sarà perché questi brani sono double-face, ovvero possono essere sia tristi che allegri a seconda di quando uno li sente e la cosa mi ha fatto troppo comodo in questo anno intenso e multipolare. E per questa sua caratteristica di resistere alla prova di varie fasi emotive differenti son certo che continuerà a farmi comodo.
Che poi si tratta di guitar/synth-pop di stampo chiaramente anni80esco ("Girl of 1000 Dreams" sembra uscita da Psychocandy) gonfio di romanticismo rosa shocking, echi a volonta e vocine frociettine. Potete provare a non provare un puccioso tuffo al cuore dal trampolino dei 10 metri ascoltando le ammalianti "The Body", "Too Tough" e "Even in Dreams" ma non ci riuscirete. 
Alla fine nulla di originale è vero, ma in fondo curare e far crescere rigogliosa una pianta pre-esistente non è meno difficile che piantare un seme tutto nuovo. Ecco perché più sento questo disco e più mi convinco che, musicalmente parlando, i migliori anni '80 del XX secolo sono gli anni '10 del XXI secolo. Insomma viviamo una ficata di anni bellissimi e ci abbiamo l'internet, ci abbiamo SfigatIndie, siamo meno "materialisti" perché rubiamo i dischi e i film coi torrent (vabè, in un certo senso lo siamo di più ma almeno non diamo una lira alle multinazionali. E hai detto cacchio) e soprattutto ci abbiamo i TPOBPAH che squagliano magnificamente come stagno la nostra rigidità emotiva.


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