domenica 25 novembre 2012

Le Raccoltine di SfigatIndie - "Nuthin' but a 'P' Thang"

Corso accelerato di post-femminismo tamarro

2012

Le Raccoltine di SfigatIndie sono tornate e sono qui per restare!
Ossia, ancora una volta ho preso tre canzoni da youtube, le ho confezionate all'acqua di rose e ci ho messo questa copertina fatta con Gimp che se usavo vinavil e forbici dalla punta arrotondata mi veniva meglio: e ora potete scaricare il tutto gratuitamente ed illegalmente! YEEEEEEES!
Questa volta il tema dei brani è
Ragazze bianche un po' trucide che fanno brani di hip-hop cafone accompagnati da video imbarazzanti i cui testi però, al di sotto della loro spessa superficie coatta, nascondono riflessioni molto interessanti sull'affermazione della donna e della sua sessualità nell'odierna iperconnessa società post-postpatriarcale

 Prima di analizzare le singole tracce ci serve un po' di background: l'hip-hop è un fenomeno nato nelle comunità afroamericane principalmente fra i giovani di sesso maschile - e fin qui ci siamo tutti, immagino. Da qui con un evento abbastanza imprevisto - denominato Beastie Boys - ha compiuto prima una salto etnico e solo in seguito di genere sessuale (pur rimanendo nella comunità afroamericana). Fra le rapper nere più interessanti citiamo solo Lauryn Hill, Missy Elliot e Lil' Kim che dopo l'epoca delle faide della prima meta degli anni '90 vollero mettere una toppa all'eccessiva violenza gangsta che il rap maschile ispirava raccontando il ghetto attraverso altri occhi seppur con un linguaggio non troppo diverso, sempre fiero e spavaldo (che ritroviamo oggi con straficone intimorenti come Azealia Banks).
Il passaggio alle donne bianche è stato però lungo e complesso ed è risultato inizialmente più in una macchietta che altro, poiché è ovvio che non si poteva certo imitare la stessa condizione svantaggiata delle colleghe afroamericane (e la stessa cosa è accaduta per i rapper bianchi che si sono dovuti cercare altri argomenti, spesso piuttosto triviali). Di questo tipo troviamo gli esperimenti acerbi dell'inglese Lady Sovereign o le ben più frivole Uffie e Ke$ha (e qui - off topic - voglio però ricordare che la sua cover di "Don't Think Twice, It's Alright" di Bob Dylan è quantomeno sorprendente).
Di recente, invece, sono spuntate delle tizie che per quanto apparentemente adornate da un'estetica non poco trash, rappresentano un modo abbastanza originale di approcciare il femminismo tramite il linguaggio senza filtri del rap: diretto, sboccato e oltraggioso. Ed è, a mio avviso, piuttosto efficace.
Scopriamo dunque tre fra le mie rapper bianche preferite degli ultimi tempi.

Iggy Azalea - "PU$$Y"

Il 2012 è l'anno dello sdoganamento del cunnilingus. Partendo dal "I guess that cunt gettin' eaten" della sopracitata Azealia Banks, passando per il "my pussy tastes like Pepsi Cola" di Lana Del Rey, senza scordare l'inno allo slinguamento vaginale di Danny Brown in "I Will", si arriva a questa australiana che prende l'argomento di petto (di pube, ahem) anche nel titolo (che è poi quello che rappresenta la 'P' nel citazionismo di questa raccoltina). La biondina Iggy parla di quanto la sua fica sia profumata, succulenta (dice che sa di Skittles... mmmm) e bagnata (come il Titanic e il Rio delle Amazzoni).
Detta così potrebbe sembrare una stronzata eppure questa non è altro che una trasposizione doverosa delle pose machiste dei colleghi uomini che raramente hanno disdegnato parlare dei loro, supposti, megapeni.
Ovviamente una sottile misoginia si è insinuata nei commenti di youtube dove molti si sono indignati per la presenza di bambini nel video: mavafangù.



Brooke Candy - "Das Me"

Probabilmente la più trucida del trio, Brooke Candy è una spogliarellista italoamericana diventata famosetta grazie a un tumblr pieno di foto abbastanza nsfw che l'ha fatta finire nel video di "Genesis" della cantante goth-psichedelica canadese Grimes. In "Das Me" mostra un'estremizzazione in salsa rosa ultra-kitsch del solito immaginario hip-hop: macchinoni, bling-bling, champagne, droghe e, ovviamente, bambini asiatici tenuti al guinzaglio. Ma il vero punto nodale del brano è la liberalizzazione dell'epiteto slut (traducibile come "baldraccona smandrappata" o "tizia che la da a tutti senza posa") in versi come:
"It's time to take the back "Slut" is now a compliment
A sexy-ass female who running shit and confident
Lady who on top of it, a female with a sex drive
"

Candy rivendica il suo diritto di donna di fare sesso con quanti le pare senza esser per questo esser considerata più deprecabile di un uomo che pratica lo stesso tipo di libertinaggio. A tal proposito cita la famosa strofa di Lil Kim':
"Here's something I just can't understand
If the guy have three girls then he's the man
He can either give us some head, sex a roar
If the girl do the same, then she's a whore
"
  modificandola in
"It ain't your business who I'm fucking with
A dude could fuck 3 bitches and they'd say that he's the man
But I get it in with twins, she's a whore

That's what they saying"
Il riferimento è alle polemiche scaturite da alcune foto di lei seminuda in compagnia di due gemelli (i famigerati gemelli Sewel). È inopinabile dunque che, nonostante l'estetica super-appariscente, Brooke Candy rispolveri il dibattito su alcune questioni morali che rimangono ancora irrisolte persino nella nostra odierna società occidentale. Anche se perché se provi a opinare ti fa il cazzo a fette (sul serio: "Take a knife to your dick, I'm a cut your fucking loss". LOL, trovo questo tipo di minacce stranamente eccitanti. Lorena Bobbitt FTW).
"Next time they call you a slut
Brooke Candy tell you not to give a fuck
"



Kreayshawn - "Gucci Gucci"

Infine, tocchiamo un altro argomento diverso con Kreayshawn che nella sua "Gucci Gucci" se la prende col conformismo e con le mode nel ritornello che fa:
"Gucci Gucci, Louis Louis, Fendi Fendi, Prada
Basic bitches wear that shit so I don't even bother
"

Alla faccia del buon nome internazionale del made in Italy, la rapper di San Francisco propone di investire quei soldi in maniera più produttiva, sul proprio partner o sulla propria famiglia (probabilmente qui intesa come crew). O anche su un bel po' di canne. Il brano in sé suona abbastanza stupido e sborone, tuttavia come abbiamo visto dal punto di vista contenutistico è almeno un mezzo passo avanti nei confronti del solito banale rap a sfondo edonista e consumista (anche se un tempo, per quanto riguarda la cultura afro, lo sfoggio di ricchezza era più che altro un segnale di rivalsa sociale).
E ad ogni modo sul verso finale ritroviamo un certo orgoglio vaginale:
"I got the swag and it's pumping out my ovaries"
Fuck yeah!


Downloada subito l'evirante seconda Raccoltina di SfigatIndie

mercoledì 31 ottobre 2012

Christian Death - "Only Theatre of Pain"

Dark-wave? Death-wave? Decapitiamo un agnellino e battezziamoci nel suo sangue-wave!

1982

Quali sono gli album che più vi fanno cacare sotto per la strizza? Quali sono gli album che definireste horror? Il metal ha spesso cercando di inseguire questa strada sin dai suoi inizi: ad esempio, con il primo disco dei Black Sabbath grazie anche a una copertina non poco disturbante.
Eppure, secondo me, in quei casi troppo spesso si è cercato l'eccesso e l'oscenità a tutti i costi in un modo che sfiorava la barzelletta (mi vengono in mente i disgustosi ma risibilmente divertenti Cannibal Corpse).
Dove cercare dunque se non dalle parti della dark-wave: filone macabro della new-wave iniziato da gruppi come Cure, Bauhaus e Siouxsie & The Banshees.
Tutti gruppi inglesi questi, tutta gente con un certo senso dell'umorismo se non altro: ma che succede invece se una cosa del genere la si mette in mano a qualcuno che si prende molto più sul serio, tipo gli americani?
"Only Teathre Of Pain" dei Christian Death è il disco che più mi fa sentire a disagio e mi angoscia proprio per questa ragione. Le sue soluzioni orrorifiche - rintocchi di campane, testi blasfemi e versi recitati al contrario ("sevlesmeth pleh ohw esoht spelh dog") - sono costruite ad arte eppure emanano una raggelante "sincerità" che non si può ignorare. Il merito è tutto della voce deprimente, viscida e suicida di Rozz Williams, che lecca le orecchie e poi le morde, e nelle schitarrate ustionanti di Rikk Agnew che pugnalano con precisione e violenza le orecchie della vergine sacrificale di turno. A dare l'aspetto di un vero sabba danzante attorno al fuoco contribuisce il ritmo di un basso registrato a volumi spropositati, che sostanzia capolavorrori ballabili come "Romeo's Distress".
Per la nostra (in)sensibilità contemporanea un disco del genere potrebbe apparire, sulla carta, macchiettistico e artificioso (per questo bisogna ringraziare, non so se seriamente o ironicamente, le banalizzazioni di Marilyn Manson) eppure ascoltandolo è davvero difficile mettersi a ridere, specialmente tenendo a mente che Williams, dopo diversi progetti su questa falsariga, difficilmente stava scherzando quando venne trovato impiccato nel suo appartamento di West Hollywood il primo aprile del 1998,
Buon Halloween a tutti da SfigatIndie.
BU!


domenica 14 ottobre 2012

The Divine Comedy - "A Short Album About Love"

Non conta la lunghezza, conta come lo usi

1997

 Negli anni '90 uno spettro si aggirava per la Gran Bretagna: era lo spettro del brit-rock. Ovvero s'era deciso che era ok far diventare delle superstar gente ultracoatta che magari un giorno aveva bigiato il lavoro in acciaieria per andarsi a comprare una chitarra (naturalmente dato che si tratta di britannici, quindi da Shakespeare in poi mediamente più stilosi dell'europeo medio, anche i loro tamarri son migliori dei nostri).
Tuttavia, per fortuna, non era tutto così: c'era anche una parte più altolocata e ricercata del brit-rock. E qui a tutti verranno in mente i Pulp di Jarvis Cocker, il quale era sorta di dandy proto-hipster. Un fico, invero, ma forse in un modo troppo esibizionista da "Ehi, guardami, sono fichissimo. Adorami!" o "Metto delle puppe sulla copertina del disco, ma delle puppe chiccose". Ai limiti del poserismo post-newromantico, insomma.
Poi, a un livello superiore, c'è Neil Hannon: lui sì un vero galantuomo, brit ma in modo elitario (dall'Irlanda del Nord), elegante e sfacciato al punto giusto da immolarsi alla poesia scegliendosi come moniker direttamente la dantesca Comedìa (perché qualcuno doveva pur farlo) nonché talmente raffinato da pubblicare un concept album sul gioco del cricket.
"A Short Album About Love" è il suo quinto album ed è intitolato con grande onestà: sette canzoni d'amore per una durata di trenta minuti come si faceva nei dischi pop dei primi anni '60. Anni che in questo disco si ritrovano nello spirito, oltre che nella forma, grazie a un baroque pop soave ma dolorosamente agrodolce di scuola tipicamente bacharachiana. L'amore cantato da Hannon (a volte con inflessioni quasi tenorili) è sempre visto da una certa distanza, quasi incolmabile ma la brama per esso non può cessare poiché la calda idea del suo raggiungimento ci tiene vivi.
Ma, ovviamente, non immaginatevi di vedere uno come lui piangere in pubblico: al massimo se sarete voi a piangere, in un attimo vi porgerà il suo fazzoletto di seta ricamata prima che la prima lacrima possa toccare il suolo.


mercoledì 5 settembre 2012

Discovery - "LP"

Alla scoperta della sensibilità della cassa dritta sensibile

2009

Recuperate dal vostro cervello le immagini più stereotipiche di una discoteca. Quelle immagini solite dei film che mostrano questi inferni di sudore, luci stroboscopiche, volumi assordanti e voluttà non protette assortite. E in fondo non che la realtà sia eccessivamente differente, ma perché? Chi ha detto che il ballo inteso come catarsi psicofisica tramite movimento coordinato dei muscoli a linee di basso vibranti deve per forza avere un'aura di fumosa decadenza e seriosità. Una seriosità che si trova anche nei brani a tema più positivo come quelli dei Black Eyed Peas, per dire: la serata della propria vita, il ballo come atto di riscatto e banalità del genere. Sia che lo si dipinga di nero o di bianco c'è sempre un monocromatismo soffocante nell'immaginario danzereccio.
I Discovery vogliono mostrare il contrario a partire dalla copertina del loro primo e, al momento, unico "LP". Vogliono convincerci che nel martellare meccanico di una drum-machine ci può essere anche un sentimento complesso, ricco di sfumature di colore: basta metterci sopra tanti falsetti piagnucolanti/gioiosi, campanellini, tastierine pirupiranti e il gioco è fatto. D'altronde una band formata per una metà dal cantante dei Ra Ra Riot e per l'altra dal tastierista dei Vampire Weekend non può fallire in un intento del genere. "LP" è un LP succoso, divertente e ballabile con sentimento, che farà impazzire i fan di electro-fagottate simili come i succitati gruppi, i Postal Service o i Passion Pit. Quei gruppi che insomma sanno far provare un luminoso spleen estivo anche durante le stagione fredda in arrivo.


mercoledì 8 agosto 2012

The Vaccines - "Come of Age"

Il ritorno dell'albionica speed-malinconia

2012

Qualche amabile adoratore del blog SfigatIndie avrà forse notato la drammatica diminuzione della produzione postifera negli ultimi mesi. 
È tutto vero, non è un'illusione, e me ne dispiaccio: mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa, ma non del tutto.
È che, diciamolo chiaramente, con l'industria discografica ancora più in crisi del solito questo mezz'anno appena conclusosi è stato avarissimo di uscite sia in senso quantitativo che in senso qualitativo. Qualcuno magari mi dirà che le ottime uscite ci son state e che me le sono probabilmente perse, sarei contento se così fosse, ma un fatto indiscutibile è l'ormai aumentata distanza fra l'hype di un'opera in uscita e la sua effettiva bontà al momento dell'ascolto. Nel 2011 le cose erano assai più rosee: basti pensare ai grandi ritorni celebrati con gioia da tutta la critica di P.J. Harvey, Tom Waits, Bon Iver, Fleet Foxes, St. Vincent, ecc., ecc.
Quest'anno per me i ritorni di artisti che amo si son rivelati una delusione dopo l'altra: da un'inconsistente Santigold a degli irrilevanti Maxïmo Park, dai nuovi eterei e flatulenti Maccabees a dei Japandroids senza mordente, dai Mystery Jets reinventatisi country a dei pigri Futureheads passando per dei bizzarri e quasi heavy, ma non proprio emozionanti, Bloc Party. Cacchio, perfino i Fine Before You Came mi hanno lasciato indifferente. Non parliamo poi del Teatro degli Orrori
Fortuna che c'è Fiona Apple...
Ma tra tutta questa gente tornata sulle scene a stupirmi un po' ci pensano proprio quelli che sulla carta erano i più deboli, quelli da cui un secondo album inutile e fiacco me lo sarei proprio aspettato. Se sapete leggere avrete già capito che sto parlando dei Vaccines, band inglese spuntata dal nulla grazie a un vigoroso pompaggio mediatico di quelli belli come non se ne facevano più dai tempi degli Arctic Monkeys.
Ebbene sono tornati con un album sicuramente meno esplosivo ma riuscitissimo. Un album più verboso, intimista e mellifluo in pezzi come "Weirdo" o "Lonely World" ma che non scorda il veloce brio brit-indie in gassate hit come "Teenage Icon" o "Change of Heart, pt. 2". Il tutto sorretto dalla voce giusta, solida e piena, seria e decisa. Un album più complesso, insomma, di quelli che ti aspetteresti da una band che sta crescendo e sta mantenendo le promesse come fanno le persone mature di cui ti puoi fidare.
In finale, dunque, non è che non ci siano stati buoni dischi in questa prima metà del 2012 (prendiamo notevoli ficatelle come Lo Stato Sociale, i Passion Pit o Kindness) ma questo nuovo album dei Vaccines è il primo a cui voglio veramente bene... per quanto si può voler bene a una sequenza di 0 e di 1 scaricata da Filestube.
Sì, la mia ironia spezza-romanticismo fa schifo, lo so.


lunedì 16 luglio 2012

Van Morrison - "Astral Weeks"

Ermetiche poesie piroettanti

1968

L'idea dei dischi da portare su un'isola deserta mi ha sempre lasciato un po' perplesso perché, andiamo, quanto è credibile un naufrago che ritrovatosi sull'isola di Lost possa tranquillamente ascoltare i suoi dischi su un impianto stereo perfettamente funzionante (probabilmente grazie a delle celle per l'energia solare) acchittato dal Venerdì di turno?
Ciononostante se esistesse una roba del genere questo album lo porterei sicuro, garantito al limone, al lime e alla papaya, tanto per rimanere in contesti esotici.
Oscurato un po' dalla fama contemporanea del cognomonimo (parola credo inesistente) collega americano James Douglas "Jim" Morrison, l'irlandese George Ivan "Van" Morrison non poteva certo vantare un carisma fricchettone e quindi nemmeno nessuna frase allucinata e "illuminante" scarabbocchiata su chilometri quadrati di pagine di Smemoranda negli anni a venire. Van Morrison era un un poeta vero: ermetico e introverso. Non un fattone con una bella voce che ha avuto il culo di incontrare una gran band. Pure Van "The Man", poi, in quanto a voce mica scherzava.
Quando si ritrovò a registrare questo capolavoro con una vera band jazz, il sogno della sua vita, non diede indicazioni specifiche né sulle partiture da suonare né sul significato dei suoi testi. Ed ecco che, come una magia, quegli arrangiamenti folk-jazz quasi improvvisati e i quei testi tanto ariosi quanto misteriosi sono ciò che più delizioso e brillante e affascinante le orecchie possano ascoltare ancora oggi, a 44 anni dalla loro creazione. Dall'acrobatico cantato "scat" singhiozzante al più incredibile basso acustico che avrete mai modo di sentire, passando per la generosa selezione di strumenti allieta-timpani (vibrafoni, sassofoni, flauti e clavicembali), tutto concorre alla creazione di un'atmosfera in bilico fra malinconia e gioia incredibilmente "ballabile", preferibilmente sull'erba, a piedi nudi.
Infine, tutto risponde alla logica del "se una cosa è bella, tanto vale che duri a lungo" con 4 brani su 8 che superano i 6 minuti.
Non vedo l'ora di sfonnarmi con l'aroplano, custodia porta-vinili in acciaio super-resistente alla mano, in mezzo all'oceano pacifico.


P.S.: però, che cazzo: nel '68 pur non avendo photoshop i grafici riuscivano a far copertine più belle di quelle di oggi.

sabato 7 luglio 2012

The Sonnets - "Western Harbour Blue"

Tutti sul panfilo dell'amore! Mare profumo di mare, con l'amore io voglio giocareee...

2010

ZZzZZZZZZZZzzZZzzZzz...ZZzzZZZ..ZZZzzZzzz
DRIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIINNNNNNNN!!!
Aaaargh!!! Uuuuuh, urgh... ma ma ma...quanto ho dormito? Co-come!? 55 giorni!!?!
Diamine, tutta colpa della musica indie soporifera del 2012. Umpf... Di che si può parlare ora? Vediamo che giorno è: 7 Luglio.... estate. AH, perfetto! Fammi preparare le valigie che me ne vado in barca a vela a Saint-Tropez con questi stilosi e romantici fichetti svedesi. Lo so è una cosa molto chic e altolocata ma da due anni a questa parte è diventata per me un'abitudine irrinunciabile. Questi Sonnets fanno infatti un pop madido d'acqua di colonia come non si sentiva dagli '80 degli Style Council e Prefab Sprout: sentimentalismo infoulardato, pianoforte, bossanova, sassofono e coretti languidi.
Perché l'amore estivo è più bello sognarlo in prima classe.


domenica 13 maggio 2012

BADBADNOTGOOD - "BBNG2"

JAZZJAZZNONDAVECCHI

2012

Quando è stata l'ultima volta in cui il jazz è stato considerato accattivante dalle nuove generazioni e non roba per over-30? Probabilmente qualcosa come 70 anni fa, a causa dell'aura purista e snobbona con cui i musicisti del genere hanno quasi sempre adorato circondarsi e anche tutti i tentativi di svecchiamento successivi, come le incursioni nei territori "pesanti" del jazzcore e del jazz-metal, sono rimasti confinati in nicchie di ascoltatori.
La soluzione arriva dal Canada. Ovviamente.
Oh, Canada, salverai il mondo non è vero?
I BADBADNOTGOOD lo scrivono chiaramente:
"Nessuna persona al di soprà dei 21 anni è stata coinvolta nella produzione di quest'album". E il risultato è che questo "BBNG2", secondo album in 2 anni dei torontiani, suona freschissimo e cool e glamour ma è jazz, proprio jazz, inequivocabilomente jazz. 
La loro formula di riaggiornamento non investe soltanto la forma, sebbene lo faccia molto bene con l'ausilio di una produzione moderna di suoni analogici in cui il basso, strumento melodico fondamentale, è mixato ad un livello più basso (un po' come si fa oggi con la voce per altri generi), ma il neo-jazz badbadnotgoodiano mostra anche differenze strutturali con il passato ricavate da influenze moderne di musica elettronica (con un approccio compositivo "stratificato"), post-rock e hip-hop (con una preponderanza del beat cadenzato rispetto al virtuosismo batteristico). Generi che a loro volta devono molto al jazz. 
A contribuire poi a questo infighettamento concorrono alcune cover paracule ma ben riuscite di James Blake con "Limit To Your Love" (già cover di Feist), "Earl" di Earl Sweetheart (giovanissimo rapper del collettivo Odd Future), "Flashing Lights" di Kanye West e infine la chicca shoegaze-punk di "You Made Me Realise" dei My Bloody Valentine.
Superando l'alta barriera dell'immaginario sofisticato, pretenzioso e un po' matusa del jazz i BADBADNOTGOOD ci portano un disco affascinante nonché di facile ascolto nel quale, dopo tanta musica piena di beat pompanti e chitarre arrotanti, si torna anche a sentire un po' di eleganza al piano, e intendo proprio il piano suonato non 3 note di synth ripetute in loop .
Insomma, con l'idea giusta si può riuscire a svecchiare qualsiasi cosa, compresi il liscio e la polka.


mercoledì 2 maggio 2012

Subsonica - "L'eclissi"

Cassa dritta pecoreccia (ma non sempre per fortuna)

2007

Ieri, guardando i Subsonica in tivì al concerto del primo maggio, oltre ad aver pensato "Cacchio, ma questi sono i nuovi Modena City Ramblers/Bandabardò del Concertone: li invitano sempre" mi sono ricordato di questo loro quinto album e di quanto mi piacesse, nonostante non fossi mai stato particolarmente fan dei torinesi (questi torinesi, non i torinesi tutti).
E mi son anche reso conto di quanto siano stati avanti: un pop-rock con un'elettronica così preponderante loro l'avevano fatto con qualche anno di anticipo rispetto a molti altri, persino sulla scena internazionale, e in qualche modo il loro synth-rock (che 10 anni fa chiamavamo "electro-clash") rimane unico e bisogna rendergliene conto.
Tuttavia, rimane anche un po' di rammarico per come questa unicità sia stata donata dal Dio della musica "proprio a loro", che questi strumenti non li hanno mai utilizzati al massimo. I vizi dei Subsonica sono infatti grossi come una casa e basta ascoltare un qualsiasi brano per accorgersene. Innanzitutto la produzione è tamarra nel sangue (perché loro sono tamarri nel sangue: basta vedere Boosta con le sue tastiere molleggianti). Una roba tutta incentrata sull'aggiungere piuttosto che sul togliere, con la voce di Samuel sempre effettata su strati e strati di suonini e scorreggine digitali che si potrebbero anche risparmiare. Pure le chitarre quando ci sono sembrano di plastica. Inoltre gli arrangiamenti sono sempre abbastanza prevedibili: e vabè che è musica pop ma almeno in qualche pezzo non designato a singolo potrebbero cazzeggiare un po'. Per questi motivi, infatti, quello che è considerato il loro miglior album, "Microchip emozionale" (1999), non è il mio preferito: per quanto ambizioso e avanti ai suoi tempi nelle intenzioni, è invecchiato malino, specie per quanto riguarda il comparto sonoro che risulta oggi piuttosto ammuffito.
Infine, il peggior difetto dei Subsonica è..... -  suspànce - è..... la ridicola scrittura dei testi ad opera di Samuel. E cos'altro sennò? Dall'ermetismo che non serve altro a mascherare la mancanza di cose da dire all'ammassamento di aggettivi inutili, per non tacere dei testi "impegnati" che arrivano solo obliquamente a parlare di qualcosa di sensato, senza scordare i ritornelli di due parole ripetute in eterno, i Subsonica ci hanno lasciato un'eredità che la nostra povera musica alternativa impiegherà anni a smaltire, come delle scorie nucleari.
E nonostante tutte queste grane perché questo disco mi piace tanto?
Semplicemente perché è il disco in cui tutti questi problemi si sentono di meno, son abbastanza nascosti da una componente elettronica che mai prima era stata così massiccia: dalle katanate di tastiera della gasante apertura "Veleno" alla techno da rave di "Il centro della fiamma", passando per la drum&bass di "Piombo" (che credo sia una canzone anti-mafia ma sempre in quel modo incerto che dicevo prima).
Insomma, un ottimo album che mostra cosa potrebbe fare questa band se osasse e si allontanasse un attimo dagli stilemi che si è autoimposta: non solo una band in grado di fare con anni di anticipo i Pendulum e gli Aucan (che "Black Rainbow" è subsonico al 100% ma palloso).
"L'eclissi" arriva dopo quello è il loro lavoro più brutto, "Terrestre" del 2005 (monotono e tutto chitarre di plastica, bruciata però), e nel 2011 sarà seguito da quello che il loro secondo lavoro più brutto, "Eden" (tante idee interessanti ma eseguite male). Dunque o questo album è solo un incidente di percorso o magari c'è un disegno di fondo e il prossimo sarà un capolavoro. 
Nel dubbio aspettiamo fiduciosi fist-pumpando nell'aria a ritmo delle loro casse dritte.


P.S.: durante il tour di questo disco utilizzarono una fighissima parete di led: un'altra roba un sacco avanti, davvero.

giovedì 26 aprile 2012

I Blame Coco - "The Constant"

Electro-pop raccomandato

2010

Non accuso il nepotismo: dopotutto sono perfettamente in grado di comprendere che se sei figlia di un musicista, se sei nata e cresciuta in un ambiente pieno di musica, hai accompagnato tuo padre a lavoro in giro per il mondo, risulta assai innaturale anche solo provare a fare qualcosa di diverso tipo, che so, il tassidermista.
Questa è, infatti, la storia di Eliot Paulina Sumner detta "Coco", figlia di Gordon Matthew Sumner detto "Sting", nata nel 1990 a Pisa (perché il papà è fissato con la toscana e ha una casa da quelle parti).
Al di là dei pregiudizi questo "The Constant" può, sì, ricordare senza dubbio alcuni elementi del frizzante synth-pop chitarroso della band paterna ma, in generale, è più assimilabile ad altre artiste electro-pop (con l'accento su pop) contemporanee come La Roux, Ladyhawke, Ellie Goulding  e Marina Diamandis.
Dalla sua Coco ha il pregio di scrivere canzoni meno frivole e "giocattolose" di quelle succitate colleghe e in questo l'aiuta la voce seria e corposa, questa sì, incredibilmente simile a quella del papà.
"The Constant" è un disco più che discreto, godibilissimo e sostanzioso, che pur non restando negli annali, apre la strada a una nuova strafica mascellona del pop.
Ve lo raccomando.


P.S.: Sting è riuscito a piazzare anche un altro figlio, Joe, con la band Fiction Plane

sabato 21 aprile 2012

The Stone Roses - "The Stone Roses"

Un capolavoro. Senza il quale gli Oasis non esisterebbero...urghhh

1989

Oggi è il Record Store Day, gente, il giorno in cui dopo 364 giorni passati a scaricare roba da mediafire ci si ricorda che esistono i negozi di dischi e che la musica ogni tanto si può anche pagare. Evvai!
Per questo vi racconto di quando comprai per la prima volta un vinile: il sopra-raffigurato primo album (il secondo è irrilevante) degli Stone Roses. Un disco bellissimo, fondamentale, indescrivibile e unico nel suo genere. Pensate un po', Noel Gallagher decise di fondare una band dopo aver visto un loro concerto. Gli Stone Roses vengono infatti da Manchester e sotto sotto sono dei coatti non da poco: sebbene infatti questo disco non lo sia, perché nato in un'epoca in cui, sulla scia dei concittadini Smiths, andava di moda fare i dandy maledetti e sofisticati, in seguito i componenti della band si sono sbizzarriti con la loro tamarragine.
Il cantante Ian Brown, ad esempio, ha creato il suo brand di tute in acetato che potete vedere indossato fieramente da lui stesso nella copertina del suo ultimo album "My Way". Un album più che discreto invero, perché checché se ne dica gli Stone Roses ebbero un assaggio di quella mitica fiamma che permette di scrivere canzoni immortali. E non è che il ricordo di tal fiamma si perde tanto facilmente.
Anche se dal vivo son sempre stati inadeguati: ad esempio, il batterista Reni (se vi pare un nomignolo strano sappiate che il bassista si chiama Mani) non è mai stato in grado di eseguire decentemente la vorticosa e incessante "Fool's Gold" (presente solo nella versione statunitense del disco) e Ian Brown è un bel po' stonato. E da quest'anno li potrete rivedere in tutti i grandi festival d'Europa perché si sono riformati!!! Chissà magari son migliorati.
Del disco in sé comunque c'è poco da dire: ha la mia età e se non lo avete sentito dovete ascoltarlo e basta perché è impossibile da descrivere senza usare parole come megastraficaderrimoultrabombotronicocremosoipertrascendentalebazoom.
E pensare che io lo comprai a scatola chiusa: ne avevo letto soltanto sul libro allegato a Rolling Stone "I 500 migliori album di ogni tempo" che lo liquidava alla posizione quattrocentonovantasettesima con due parole, però ero assai intrigato dalla copertina disegnata dal chitarrista John Squire in style Pollock+VitaminaC. Allora, con una mega botta di culo lo trovai per meno di 10 euro in un pidocchioso mercatino dell'usato vicino casa. Diciamo che il prezzo era adeguato perché, nonostante si sentisse perfettamente, la bellissima "Made of Stone" era completamente rigata a livello "sbracapuntina". Per questo l'omonimo disco degli Stone Roses è anche l'unico che possiedo sia in vinile che in cd.
Bene, per quest'anno è tutto: via via, andate a comprare un disco che vi piace molto e lasciate marcire nei magazzini le tonnellate di dischi "meh" in circolazione che tanto prima o poi li troverete alle bancarelle a 50 centesimi l'uno.

Compralo subito o streamalo su Spotify

giovedì 19 aprile 2012

I quartieri - "Nebulose"

Nello spazio nessuno può sentirti piagnucolare

2010

Quando ci si sente soli è sempre la stessa storia.
Non importa se si è su un autobus durante l'ora di punta, in motorino sulla tangenzialeo a lezione all'università. Quando ci si sente soli è un po' come trovarsi su una navicella spaziale, alla deriva nello spazio profondo, che ha perso le coordinate: lontani anni luce da qualsiasi persona che possa aiutarci o semplicemente farci compagnia. Perché in realtà chi ci sta attorno non si trova mai nelle nostre condizioni, non può capirci.
Fortuna che la scienza musicale nel 2010 ha elaborato un medicinale altamente lenitivo che si assume per via auricolare chiamato I quartieri.
La one-man band di Fabio Grande canta di questa solitudine interstellare con voce carezzevole, chitarra reverberata e tanti effetti sonori siderali attorno come se stesse veramente fluttuando con rassegnazione nel buio dell'abbandono alla ricerca di un lumicino di empatia. E inevitabilmente quando ascolterete queste tenere poesie su basi soft-space-post-rock radioheadiane vi sentirete sicuramente un po' meno desolati.
Inoltre questo disco non ha controindicazioni: lo potete ascoltare anche quando siete felici senza deprimervi perché, si sa, la felicità non esisterebbe senza l'infelicità dunque queste melodie agrodolci vi faranno apprezzare ancora di più quello che avete e la moltitudine di stelle nel cielo che, viste così tutte assieme, non sembrano più tanto sole*.

"Satelliti noi non saremo mai
ma nebulose scintillanti
prima orbitammo insieme lentamente e poi
scoprimmo d'essere distanti
in due universi diversi
due universi diversi"


*: no pun intended

martedì 17 aprile 2012

Kindness - "World, You Need a Change of Mind"

Funk che più bianco non si può

2012

Ehi tu, ficone zazzerone inglese che rispondi al nome di Adam Bainbridge, scendi subito da quella copertina!
 Come mai non sei su un cartellone pubblicitario di Calvin Klein? Quello è il posto che ti appartiene: devi fare il modello non puoi rubare il lavoro ai musicisti alternativi che nascondono dietro barbe folte i loro brutti lineamenti compensando anche, dall'altro lato della faccia, la loro calvizie incipiente.
Uno come te non può mettersi di punto in bianco a portare la fichezza estetica nell'indie: non vale. Che poi rovini il giocattolo a tutti se il tuo disco non è solo fatto per mostrare una foto degna di Cosmopolitan ma è anche una ficata assoluta rovinando così l'antinomia 'apparenza qualità'.
Sì, gente, ho trovato finalmente il primo disco del 2012 che mi ha fatto cadere dal letto: che è il luogo dove generalmente ascolto la musica e dove è particolarmente ideale ascoltare proprio questo disco notturno. Da soli o in compagnia (ammicc'ammicco).
Kindness prende la musica pop nera degli anni '80 - funk, R&B, smooth-jazz, house, disco, soul - e la canta come se fosse una roba da bianchi. Che detta così non sembrerebbe una buona idea ma fidatevi che suona tutto magnificamente anche se in modo diverso da come ci si è abituati: semplicemente l'originale bruciante passione black è stata rimpiazzata da un piglio più flemmatico (senza scadere nella noia della chillwave) e misterioso. 
C'è un qualcosa di chimico e artificiale in esso ma che è a suo modo affascinante: è come se Kindness prendesse il calore sessuale di, chessò, un George Benson e lo raffreddasse fino a renderlo semi-freddo. Come un Gran Soleil, diciamo: un prodotto che - Clerici a parte - trovo molto intrigante.
Ok, magari non riesco a spiegarmi bene ma provate ad ascoltare il seducente R&B, tutto basso (elettronico) slappato, di "Anyone Can Fall In Love" (cover della pessima sigla di Eastenders) oppure la magnifica "Swinging Party", cover dai Replacements che mi ricorda non poco "Love Is In The Air" di John Paul Young (una canzone che nessuno plagia mai abbastanza) o ancora il fenomenale mish-mash electro-funk alla Prince in "That's Alright" e poi ditemi se non ne vorrete di più di questo chimicume suadente.
Kindness resuscita con gentilezza, spogliandolo un po' dell'originale edonismo plasticoso, un tempo in cui l'amore si poteva descrivere in modo estremamente sessy e romantico allo stesso tempo.
Un disco arrapante come quelli di 30 anni fa ma 30 anni più tardi: ciò è molto 2012.
E ci piace.


P.S.: cioè a me me piace, poi fate voi.

mercoledì 11 aprile 2012

I Hate Myself - "10 Songs"

"KAMEHAMEHAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA"

1997

 Evidentemente gli adolescenti depressi e alienati che si spappolano l'ugola su basi post-hardcore da piccini si rifugiavano spesso in nerdate come gli anime. Infatti, dopo aver trattato i Descubriendo a Mr.Mime, che si ispirano ai Pokémon (e ora che ci penso mettiamo in ballo anche Il Triceratopo coi suoi temi cinefili), facciamo un passo indietro lungo 15 anni.
Gli I Hate Myself sono fra i gruppi che nella seconda metà degli anni '90 hanno forgiato lo screamo e l'emocore come lo conosciamo (e revivaliamo) oggi. Hanno creato tutti quei cliché che oggi tanto amiamo/odiamo come l'autocommiserazione estrema (già a partire dal nome), come il suono sdrucito e leggermente dissonante anche se melodico, così come i silenzi seguiti da esplosioni di chitarre, per non parlare degli urlacci orrendi da carotide prolassata.
Per quanto riguarda questi ultimi c'è da fare una considerazione: avevano senso! Infatti non urlavano cose idiote come "TiHOviSTAIERISeRaDaLKEbBabBaROMeNTReChieDeViUNApIAdINaSEnZaCipOLLAaA!" bensì ragionevoli incazzature cosmiche come "YoURiPPeDOuTMyFuCKInGHEaRT!!!".
Inoltre, parlavano appunto di tematiche più o meno infantili quali Dragonball Z, Godzilla e Dr. Seuss (autore di libri per bambini con famosi personaggi quali l'elefante Ortone, il Grinch e il gatto col cappello). Chissà, forse la chiave è l'infanzia come unico periodo della vita in cui si può veramente essere felici.
Gli I Hate Myself, come molte altre band screamo dell'epoca, non esistono più e non si trovano informazioni a riguardo: forse perché è dura riuscire a cantare in quel modo a lungo senza sfibrarsi le corde vocali o forse perché hanno deciso di tagliarsi davvero le vene dopo aver visto i ragazzini di Piazza del Popolo che si definivano "emo". Non lo sapremo mai (o forse sì: è giusto una frase fatta tanto per...), ma ciò che è certo è che oggi possiamo sentire queste "10 Songs" (che sono in realtà 11) che hanno contribuito a esprimere in modo schiamazzante uno spleen che bruciava, tutt'ora brucia e contribuirà a bruciare negli animi irrequieti degli adolescenti del primo mondo.
Grazie: voi odiatevi pure che ad amarvi ci pensiamo noi.
ehr... Cheesiness level over 9000, proprio.


mercoledì 4 aprile 2012

Le Raccoltine di SfigatIndie - "3canzoni3"

La prima compilation di SfigatIndie = questo è un blog serio. YEEEEE!!!
No, aspè, è fatta a cazzo di cane = non lo è. YEEEEE!!!

2012
"Quanno se' 'n crisi greativa sempliscemente 'nventa 'na nuova rubbrica cojona: ce metti 'n fotomontaggio blasfemo de 'n disco semi-famoso e ha' risorto" diceva sempre mi' nonno, paciallanimasua.
A dire il vero non so se farò di questa roba una nuova rubrica però questa mi pare un'ottima occasione per parlare di un paio di brani (+ 1) che mi parevano assai interessanti ma che non hanno, a oggi, nessun album in cui rifugiarsi.
Cominciamo con i più seri:

Craxi Driver - "Silvio is Dead"

Loro li ho scoperti grazie a un post di un blog che diceva più o meno "ragazzi, questa è la nuova merdolona!" e io come una indie-mosca mi ci sono fiondato. E in effetti con quelle chitarre taglienti blocpartyane, quella tastierina, quella voce un po' effettata che ripete il ritornello "uhmmmmmmmmm uer's mai fiuciur beibe?!", la morte inventata del nostro amato ex-presidente e un nome carismatico come Craxi Driver non è che si può sbagliare poi tanto. I Craxi Driver sono il progetto di Franz Lenti (direttore di Livù Magazine) da Grottaglie (Taranto, Puglia), un simpatico ragazzo coi mustacchi che da quelle parti credo sia abbastanza un QIP (Quite Important Person: termine che ho inventato al momento).
"Che ne sai?" Lo so perché ho avuto modo di conoscerlo. "E perché?" Perché sono nel video! Pappappero! Perciò sono famoso e mi faccio le interviste da solo! "Come hai fatto ad essere nel primo e unico video dei Craxi Driver girato dalla ganza Qamile Sterna?" Dunque...dato che quando la sentii la canzone mi parve proprio una merdolona bombotronica  scrissi spesso sulla loro pagina facebook "ehi lo sapete che la vostra canzone mi pare proprio una merdolona bombotronica?". "E allora?" Allora un giorno il suddetto Lenti Franz mi scrive "ehi, passiamo a Roma per fare un video: che ne dici di partecipare?". E io "sì, cacchio, sì!"
Oh, che figata di roba è l'internet: mi ha fatto passare un afosissimo e zanzarissimo pomeriggio d'Agosto a correre per Villa Borghese con un monitor in mano ma alla fine posso dire "guarda mamma sono su Youtube!". Il sottoscritto è quello in maglietta bianca e jeans corti non troppo eterosessuali.
Purtroppo, nonostante si fosse parlato anche di un album di debutto ("Italians Do It Worse") al momento il progetto è in stallo. Perciò cliccate sul video, guardatelo una decina di migliaia di volte a testa e rendete i Craxi Driver qualcosa di più d'una one-hit wonder.


DID - "Stop Giving Up"

I DID vengono da Torino, un po' come i Drink To Me (che vengono da Ivrea). E un po' come loro spingono la musica italiana verso succosi lidi sintetici come i succhi di frutta alieni del Lidl. Di questo pezzo non c'è molto da dire tranne che pur essendo sognante e spumoso non lo è così eccessivamente da cadere in quella trappola della noia chiamata chillwave. Non a caso l'ho ascoltato milioni di volte: è così morbido e polposo che proprio non riesco a farne a meno. Proprio una hit primaverile perfetta.



Infine, ecco la boutade musicale:

I Gatti - "Reflex"

Qualcuno si ricorderà che quando spuntarono fuori per la prima volta I Cani assieme a loro vennero fuori alcune parodie come I Criceti e I Gatti. Questi ultimi in particolare avevano anche delle canzoni: non proprio eccellenti, invero, ma comunque ispirate nello stile al gruppo canino in questione. Ma questi Gatti di cui vi parlo ora non sono quegli stessi Gatti. Infatti, esiste un'altra band chiama I Gatti, sempre ispirata a I Cani, che ha prodotto questa perla un po' pirla chiamata "Reflex". Non sono riuscito a trovare mezza informazione circa questa band. Non ricordo nemmeno chi mi ha fatto sentire questo magnifico pezzo gigione con tanto di tastierina assassina per la prima volta. Se ne sapete di più - anzi se siete proprio voi I Gatti - vi prego di informarci. Questa NON può essere l'unica canzone.


Allora che aspettate?

Downloadate subito la magnifica prima Raccoltina di SfigatIndie

giovedì 29 marzo 2012

Sleigh Bells - "Reign of Terror"

LallàlallàllàlallàlàlàhlalAAAAARGGGHHH

2012

Mi piacciono gli Sleigh Bells.
Che è come dire "il mio piatto preferito è la pasta con la nutella" o "mi piace l'odore di carne viva delle unghie dei piedi appena tagliate" (è una citazione dell'Ulisse, giuro) o "adoro sniffare la benzina quando faccio rifornimento" e altre cose da disgustorama simili. Gli Sleigh Bells, duo maschio-femmina da Brooklyn, sono un guilty pleasure, insomma. Almeno per ora, perché questa è la musica "più 2012" che ci sia al momento. Qualcosa che vostra mamma non potrebbe soffrire perché la troverebbe incomprensibile. Mi spiego: se, ad esempio, siete uno di quei pipparoli coi capelli unti che ascoltano tutto il giorno il metal, vostra mamma sarà, per quanto rammaricata, perfettamente in grado di capire che quella musica piena di violenza machista vi permette di sognare fuori dagli schemi di un'esistenza banale e alienante; pur non apprezzando quei rumoracci inverecondi, ovviamente. 
Ma come spiegarle questa roba, invece? Come descriverle il perché di questo intruglio, di questo kitschume noise-pop osceno? Come farle apprezzare dei motivetti potenzialmente orecchiabili anche per lei mentre vengono devastati da chitarre fischianti/shoegazzanti registrate a volumi improponibili, effetti elettronici e smitragliate digitali a doppio pedale (facciamo quadruplo) della drum-machine alternate a beat hip-hop. Come far interpretare il significato (per noi ggiovani decisamente trasparente) di quella copertina - delle scarpe da hipster macchiate di sangue - a qualcuno che non ha mai vissuto il neo-poserismo su scala mondiale dell'era di internet? 
Questo non è bubblegum pop, è una big babol caduta per terra e poi rimessa in bocca: con il sapore di fragola artificiale che si mischia a quello della polvere. È una chupa chup con lo stecco di filo spinato.
A detta della critica seria questo secondo disco di questa band dal simpatico nome natalizio non regge il confronto con l'acclamato debutto, "Treats", perché accentua troppo il versante pop del loro suono (che poi è il fattore che a mio avviso rende questo disco ancora più acidamente kitsch).
Ma, chiaro, ormai gli Sleigh Bells si son spinti troppo oltre e le webzine autorevoli non possono mica scrivere esplicitamente "mi fa eccitare l'odore acre di terra mista a urina della sabbietta dei criceti". Sarebbe troppo.


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