mercoledì 30 novembre 2011

Black Cobra - "Bestial"

Introduzione Sfigata alla Musica Tritaossa (vol.5)

2006

Immaginatevi il rinfresco di una bel matrimonio su una spiaggia hawaiana mozzafiatante. Il sole comincia a tramontare e il cielo si colora di un verde-viola elettrico mentre bambini dalla pelle scura e dai lineamenti un po' asiatici corrono felici e si nascondono sotto i tavoli su cui è ingombri di tartine colorate, danzatrici in gonnella tradizionale ballano la hula su un sottofondo suonato dall'ukulele di un ciccione con la faccia simpatica e gli occhi strizzati. Fra gli invitati: smoking inamidati si alternano a camicie floreali, in un kitschissimo folklore crossover imposto dai dettami imbastardenti dello stile occidentale. Gli sposi guardano quel mare arancione che profuma di gelsomino felici di una felicità che solo una cerimonia da 5 zeri pagata dai genitori sa dare. Accanto a loro un quartetto d'archi suona un soave motivetto.
Ad un certo punto un bambino nota la superficie del punch rosa vibrare per alcuni secondi per poi, di colpo, fermarsi. Un secondo più tardi un'insidiosissima quanto silenziosissima sottile colata di lava rossa come un tuorlo d'uovo, sputata misteriosamente da un foro nella parete del Kīlauea, cola giù lungo la spiaggia e investe i piedi della maggior parte degli astanti che cominciano a contorcersi emettendo urla strozzate e inumane. Alcuni bambini inciampano e cadono di faccia nel liquame ultrabollente e subito cominciano a soffriggere sfrigolando in modo orrendo. Il magma ricopre anche le scarpe con le ghette dei musicisti ma questi, come zombie demoniaci, continuano a suonare la loro musica che rapidamente si trasfigura. Diventa qualcosa di profondissimo e scuro come la notte più criminale, ma di un nichilismo mostruosamente a fuoco. Una musica pesantissima eppur non veloce. Lavica. Bestiale.
Gli sposi scappano in mare e, mentre l'orchestrina intona "El Equis" dei Black Cobra, la roccia fusa incontra l'acqua e si solleva un vapore densissimo e nauseante dal quale spunta fuori Cthulhu, il mastodontico Signore delle Tenebre. Il ributtante Dio del Male con un tentacolo stritola come una polpetta croccante lo sposo e con un altro afferra con malefica delicatezza la sposa, la quale strepita e si tinge di rimmel sciolto le guance. Cthulhu la porta giù nelle profondità indicibili degli abissi più neri dove festeggerà con lei la sua prima notte di nozze.


P.S.: per una vera recensione si consiglia DeBaser

martedì 29 novembre 2011

Antonello Venditti - "Unica"

I miei genitori lo ascoltavano prima che diventasse mainstream

2011

Il triangolo, chissà perché, ha spesso avuto una certa presa sull'immaginario hipster delle band degli ultimi anni (e non solo). La ragione è probabilmente riconducibile a "Servi della gleba a testa alta/ verso il triangolino che ci esalta".
Per questo quando ho visto questa copertina e capito che Antonello Venditti era, plausibilmente, diventato un hipsterone con i capelli rasati di lato, i baffi, le Clarks e qualche mongolata colorata al posto dei suoi storici Ray-Ban ho pensato che, dopo melensaggini come "Che fantastica storia è la vita" o "Dalla pelle al cuore" era giunto il momento di tornare a dare una possibilità al vecchio Antonellone nazionale.
Anacronistico e contemporaneo a un tempo, "Unica" resuscita stilemi ammuffiti degli anni '80 (batteria - suonata al solito dall'amico Carlo Verdone - con effetto eco, riffoni di chitarra un po' ligabovini un po' funk, ritornelli con cori da stadio e assoli di sax come se Clarence Clemons fosse ancora vivo, suonati dall'argentino Gato Barbieri) ma gli da una parvenza di sostenibilità, mixando tutto a un livello 2011esimamente umano. In verità, non mancano bei passaggi atmosferici al synth, o belle melodie al piano (come quella che dell'incipit che ricorda "Struggle For Pleasure" di Wim Mertens) e alla chitarra (come quella, Coldplayana, che scansiona i versi di "Forever", poi rovinati da un ritornello pomposo e kitsch) e il cantato, seppur meno potente, ha quasi abbandonato i famosi "ragli" di una volta per soluzioni più morbide.
Questo disco mi ha fatto ricordare come l'immediatezza di certo pop sappia rendere con 10 note quei sentimenti che altri generi più di nicchia rendono con 100. E a volte è bello accoccolarsi nella rassicurante banalità: se non altro questo disco è molto meglio di "In questo mondo di ladri" che ascoltai fino alla nausea durante i viaggi in macchina con i miei genitori.
Qualche riflessione sui brani va prima di tutto a "Cecilia", ennesimo brano con un nome di donna nel titolo che si va ad aggiungere alla lista cronologica dopo "Marta", "Lilly", "Sara", "Giulia", "Eleonora", "Esterina" e "Lula". E soprattutto non si può non citare "La ragazza del lunedì (Silvio)", brano sconvolgente per diverse ragioni. Prima di tutto perché immagino che all'inizio si chiamasse semplicemente "La ragazza del lunedì" a cui è stato poi aggiunto estemporaneamente il secondo titolo di "Silvio" come trovata commerciale per "celebrare" la dipartita di Berlusconi dal governo. Il fatto è che così il brano, mischiando maschile e femminile sotto un sottofondo quasi eurodance con l'inquietante voce di Venditti vocoderizzata, suona davvero ambiguo, strano e irresistibilmente gay. Come se non bastasse, tutto l'arrangiamento di cori plagia in modo pauroso "Viva La Vida".
Un ultimo appunto va al testo di "E allora canta!" che vuole infondere speranza a chi è rimasto fregato dalla crisi invitando a scordare le crudeltà di questo mondo mettendosi a cantare una bella canzunciella. E vabè, Antonè, facile per te che magari in tempi di vacche magre potrai anche chiedere la Bacchelli, eh.

venerdì 25 novembre 2011

Sparks - "Indiscreet"


1975

Ho appuntamento con una mia amica tra due ore e ho deciso di aspettarla nella Micra blu di mia madre, parcheggiata davanti alla facoltà di lettere e filosofia di Roma Tre; questa strana situazione mi fa riflettere: perché penso sempre al blog di Francesco quando mi trovo in situazioni poco amene? Ah boh, passiamo al nitty-gritty del discorso.
Ho sempre avuto una predisposizione per la musica frocia e quindi la scoperta degli Sparks nell’estate 2010 è stata per me una vera e propria esperienza mistica.
Gli Sparks nascono all’inizio degli anni ’70 come band, velocemente però questa si trasforma in un duo formato da due fratelli: Russell Mael, voce, e una delle persone alla quale stringerei la mano più volentieri (se solo non avessi paura che mi attacchi l’omosessualità…), ovvero Ron Mael, tastiere e la maggior parte dei testi, una sorta di Gomez della famiglia Addams misto a Hitler misto ad un molestatore di galline. Californiani, sono uno dei pochi esempi di glam rock americano, fenomeno prettamente londinese*, tanto da essere spesso additati come ricopioni, brutte parodie dei Roxy Music eccetera eccetera; è in realtà un discorso molto banalizzante dato che gli Sparks regalarono all’industria musicale di quegli anni qualcosa che non si vedeva più da diverso tempo (vedere i Kinks essì essì sono monotematica): temi inusuali per testi di canzoni (tipo gli ananas), satira, cinismo, ironia…ma dagli anni ’60 ad allora la società era anche molto cambiata ed era adesso possibile scrivere anche una canzone chiamata "tette".

"For months, for years,
tits were once a source of fun and games at home
and now she says, tits are only there to feed our little Joe
so that he'll grow
(…)
They all taste good after three or four
so drink Harry, drink Harry, drink 'til you can't drink no more
of anything, no more of anything"

Uno stile musicale a cavallo tra il synth-poppone e l’hard rock glitterato, dando una strizzatona d’occhio al cabaret brechtiano, come si può anche notare nelle performance live teatrali, studiate, quasi sceme.
Di similissima beltà consiglio caldamente anche "Kimono My House" (che anzi credo sia il migliore fra tutti) e "Propaganda", con la sua bella copertina del cazzo.
Poi non lo so, se conoscete qualcosa di ancora più checcoso mandatemi pure una mail.

* i New York Dolls sono tutto un altro paio di maniche e bisognerebbe parlare per ore di tutti i maledettissimi (leggi: galvanizzantissimi) generi proto-punk. Lou Reed solista invece nasce come pupillo di David Bowie, quindi in un certo senso filo-britannico BLA BLA BLA!


P.S.: Nel 2009 sempre gli Sparks hanno pubblicato una rock opera molto fica sul regista svedese Ingmar Bergman, se a qualcuno possa mai interessare.

mercoledì 23 novembre 2011

Sepalcure - "Sepalcure"

Suoni vecchi in un miscuglio nuovo, per ballare (duro) da soli

2011

Prendete i vostri calzini anti-scivolo coi gommini se non volete rischiare di spezzarvi la schiena sul parquet della vostra cameretta. I Sepalcure (collaborazione fra due importanti produttori newyorkesi: Machinedrum e Praveen) sono lo straordinario punto di convergenza fra la 2-step londinese, l'house di Chicago e la techno da Detroit. L'accostamento di queste tre cose non vi dice niente? Non ha la minima importanza perché una volta fatto partire il disco non potrete far altro che ballare sulla sua commistione liquida di profondi beat dispari, sinuose voci soul e spiralidosi giri di synth. Insomma, non si tratta del solito disco buono sia per la poltrona che per la pista o uno di quei dischi che se non li balli non hanno senso, no. Questo disco manda degli impulsi elettrici al cervello e non gli permette di tenere a freno i muscoli, indipendentemente da dove uno si trovi al momento dell'ascolto.
Insomma BIC (bello in culo) ma anche NSFW.


mercoledì 16 novembre 2011

Silver Apples - "Silver Apples"

A me mi piace l'elettropop...dell'anni '60

1968

Quanto si è dilatata la concezione dello scorrere del tempo negli ultimi 50 anni? Sentire frasi come "gli Stooges furono precursori del punk" o "i Jesus & Mary Chain precorsero lo shoegaze" fa un po' ridere quando uno si rende conto che queste band anticiparono un certo fenomeno soltanto di una manciata di anni, spesso neanche cinque. Qui, invece, si narra tutta un'altra storia in cui l'anticipo consiste di almeno due decenni. Una storia che comincia nella New York degli anni '60 quando un certo Simeon Coxe III, probabile nerdone ante-litteram cominciò a costruire da sé delle macchine sonore elettroniche chiamate "audio oscillatori" per implementarle nel sound della sua band di rock tradizionale. Ma - e qui viene il bello - quello che ne venne fuori fu qualcosa di estremamente compiuto e piacevole alle orecchie: una roba che i Kraftwerk al confronto sembrano, ed effettivamente erano, dei semplici (si fa per dire) sperimentatori. 
Il disco di debutto dei Silver Apples pare già ben oltre la fase di collaudo e - a parte per alcuni stilemi psichdelici e per la qualità della registrazione - sembrerebbe essere uscito al massimo 10 anni fa. Qui si parla, infatti, di elementi elettronici fusi nella struttura di canzoni rock con una disinvoltura incredibile, che al giorno d'oggi daremmo quasi per scontata. Ad esempio, in "Program" si sentono addirittura dei breakbeats e dei primitivi samples di programmi radio (anche in italiano)! Mentre in "Whirly-Bird" il gusto per le polifoniche ripetizioni alienanti sarà ripreso dagli Animal Collective. E, ancora, elementi di space-rock, industrial, spoken-word, folk, kraut-rock e drone (come nell'impressionante "Dancing Gods") concorrono a ingigantire la portata invisibilmente rivoluzionaria di una delle opere meno ricordate (perché meno comprese) di un decennio pieno zeppo di rivoluzioni.
Tutto questo senza manco fare un accenno a quanto sono belle le canzoni in sé: bè, sono molto belle, pura goduria psych-pop-avantgarde.

Compralo subito o downloadalo prima

P.S.: la riedizione cd che si può trovare in vendita comprende anche il successivo "Contact"

lunedì 14 novembre 2011

N.W.A - "Straight Outta Compton"

"Life ain't nuthin' but bitches n' money"

1988

Semmai dovessi fare - dopo quella dedicata al metal - una nuova rubrica chiamata "Introduzione Sfigata al Gangsta Rap" probabilmente comincerei e finirei qui.
La gang che formò gente come Dr.Dre (colui che ha scoperto Snoop Dogg ed Eminem se siete supernovizi) e Ice Cube fu, infatti, la più influente di tutte. Quella che, assieme ai Public Enemy (sulla costa opposta), ha dato l'impronta a tutto l'hip-hop successivo, non necessariamente "gangsta". Prima dei Niggaz With Attitude (N.W.A appunto) l'hip-hop era confinato in ambiti più cazzoni e spensierati: il rap di pionieri come Sugarhill Gang, Run-D.M.C. e LL Cool J era, sì, un modo per sfuggire dalla grigia realtà delle strade colorando un immaginario fatto di ritmi ballabili e vestiti sgargianti ma anche, ed essenzialmente, materiale da festa.
Con loro il rap scese nel lercio dei sobborghi di Los Angeles ("direttamente da Compton" appunto) e cominciò a narrare le storie della vita di strada delle numerose piccole bande che popolavano la città californiana: nacque la "street cred" (credibility), ovvero il livello di rispetto che un tale membro della comunità nera poteva guadagnarsi compiendo certe azioni più o meno criminali. Il linguaggio di "Straight Outta Compton" è slangato, violento ("Gangsta Gangsta"), rancoroso ("Fuck Tha Police") e vagamente misogino (anche se pezzi come "I Ain't Tha 1" fanno abbastanza ridere e descrivono comunque una realtà sociale). Tutta questa esaltazione della vita urbana odorosa di piombo fuso può non piacere ma questo disco resta un'importante testimonianza di come discriminazioni, disuguaglianza sociale, autorevolezza basata sulla ricchezza e sul potere, segregazione e libera vendita delle armi da fuoco possa creare uno scenario paradossale in cui essere dei delinquenti può essere considerato un modo fico di "esprimere se stessi".
I N.W.A dunque narrano della realtà in cui vivono, anche se probabilmente non in prima persona perché chi veramente faceva quella vita di strada di norma non perdeva certo tempo a scriverci sopra canzoni. E lo fanno con un disco divertentissimo, ritmatissimo e ultrafunkadelico che non può mancare nella collezione di chiunque voglia cominciare a immergersi nel mondo tanto distante quanto affascinante dell'hip-hop. Prendetelo come una lezione di antropologia, tenuta sopra una Chevrolet Impala cromata con le sospensioni idrauliche. Respect!

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lunedì 7 novembre 2011

Ohbijou - "Metal Meets"

Ohbijou? 'nobijou!

2011

In Canada si crepano di freddo, evidentemente.
Allora provano a scaldarsi o con il terrorismo sonoro più matto e frizionante del globo o con l'indie-pop più caldo e avvolgente dell'universo. Ecco allora che "Metal Meets" degli Ohbijou è il perfetto esempio di come ci si possa versare una tisana alle erbe direttamente nei condotti auricolari. Le sue canzoni gusto latte e miele hanno tutti gli elementi giusti per generare tepore: tanti strumenti, arrangiamenti sostanziosi, ritmi cullanti, una usignolesca voce femminile che non cambia registro manco una volta cascasse il mondo (e va bene così) e testi pucciosi-amorosi.
In questi giorni piovosi è il disco perfetto da ascoltare insarcofagati sotto a un piumone.


domenica 6 novembre 2011

Slayer - "Reign in Blood"

Introduzione Sfigata alla Musica Tritaossa (vol.4)

1986

SfigatIndie prende posizione e formula la seguente spocchiosa regola:
 "Chi non ha mai ascoltato Reign in Blood degli Slayer, indipendentemente dalle proprie attitudini musicali, non può essere considerato un critico credibile"
  Poi fate come vi pare ma davvero non si può prescindere da un'opera del genere: "Reign In Blood" non è solo il capolavoro dello speed-metal, il disco più veloce e violento degli anni '80, ma anche una pietra miliare della musica del XX secolo. Sul serio, potete metterlo sullo stesso piano di "The Dark Side of The Moon". Cioè in teoria "The Dark Side of The Moon" suonerebbe esattamente così se i Pink Floyd fossero stati brutalizzati con mazze da baseball infuocate ricoperte di filo spinato da Lucifero in persona prima di cominciare a registrare. Gli Slayer, con l'aiuto di quel ciccione di Rick  Rubin, il Re Mida dei produttori, in soli 28 minuti e 56 minuti sconvolsero la storia della musica e fecero suonare come "Love Is In The Air" tutte quelle canzoni che prima di loro erano considerate violente. Con foga punk (7 brani su 10 non superano i 3 minuti) i due chitarristi solisti Kerry King e Jeff Hanneman attorcigliano, come due fruste, assoli a velocità supersonica, che il cervello quasi fatica a seguire, sotto i pestoni dirompenti, liquidi, a cascata, a nastro di Dave Lombardo mentre la voce di Tom Araya urla acutissima e velenosa i testi più feroci e controversi mai sentiti prima.
"Auschwitz, il significato del dolore/Il modo in cui voglio tu muoia"
ovvero l'incipit di un album più brutale di sempre, ancora imbattuto, e anche se le accuse di antisemitismo che vennero mosse contro la band fossero tutto sommato false (sono dei bravi guaglioni, vi consiglio di vedere qualche intervista) è impossibile rimanere impassibili ascoltandolo.
Alla pari di tanti altri dischi che vengono proclamati fondamentali e, forse anche più di altri, "Reign in Blood" e la sua copertina spaventosa non può mancare nella vostra collezione di dischi metal e semmai non ne avete una potete tranquillamente cominciare (e in teoria anche fermarvi) qui. Affermazioni forti lo so, ma quanti dischi metal son stati così influenti da ispirare anche una cantautrice pop come Tori Amos?
Fate i seri: compratelo, ascoltatelo e morite. O morite.

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sabato 5 novembre 2011

Rustie - "Glass Swords"

Un dancefloor lastricato a Fruittella

2011

La dance del futuro sarà zuccherosa e lisergica. Se non vi eravate convinti con araabMUZIK o Hudson Mohawke, con lo scozzese Rustie (nuovo assunto presso la Warp, l'etichetta che sta alla musica elettronica non convenzionale come la Motown sta alla soul) ne avrete un'ulteriore e più compatta conferma. Altra certezza è che ormai non si può più prescindere dalla dubstep che infatti è il piano di lavoro di Rustie sul quale egli dispone con ordine e metodicità tecno anni '90, chiptune, hip-hop crunk maranza, dance da stadio alla Calvin Harris e vocine elio-vocoderizzate. A tutto questo son stati dati diversi nomi abbastanza ritardati come "Street bass", "Aquacrunk" e "Purple sound" anche se quello che va per la maggiore è "Wonky" che immagino - anzi spero - sia una crasi fra Willy Wonka e funky. In parole povere è una versione allegra e colorata della dubstep, notoriamente cupa e claustrofobica. "Glass Swords" si può descrivere facilmente come: un pulmino Wolkswagen modificato lanciato a 250 km/h contro il muro del kitsch ma che riesce a inchiodare prima di sfracellarsi, o quantomeno impatta senza causare danni mortali ai passeggeri sui sedili posteriori. "Glass Swords" è infatti magniloquente ma non spaccone (non ci sono mai drop tamarri e scorreggioni alla Skrillex), acidulo ma non astringente da stipsi assicurata: dance da mangiare con le orecchie e da ballare con le ghiandole salivari, insomma.
O anche: un rave party per orsetti gommosi. Se questo è il futuro ben venga, ma poi ricordatevi di lavarvi i dentini prima di andare a dormire


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