domenica 15 maggio 2011

Donovan - "A Gift from a Flower to a Garden"


 1967

L’appartamento dove vivo da ieri non ha più né il bagno né l’acqua corrente. Dopo aver attraversato via dei Fori Imperiali a piedi sotto al sole ho passato il pomeriggio a studiare trigonometria con mia zia e ora sto andando a dormire in una brandina nel salotto di mia nonna, senza internet, senza niente in tv, ho dimenticato il libro da leggere a casa, mi sono sbucciata un ginocchio con uno spigolo della brandina, c’è un gatto che mi morde le cuffie dell’Ipod e da quando ho iniziato a scrivere si sono scaricate quattro penne, giuro su dio. Dovevo scrivere degli Sparks, gruppo frocetto anni ‘70, ma direi che ho tutto il diritto di fare un po’ come cazzo mi pare, cioè, non lo so…
[“introduzione alla recensione” di Cecilia Benedetti, edito dalla Buka Corps.]

Donovan, scelgo te! Intanto perché ti conosco bene, così non ho bisogno di Google per eventuali dubbi su qualcosa, poi perché sei troppo forte ed infine perché mi va così.
In pillole: Donovan nasce in Scozia (e dall’accento non si possono avere dubbi, diamine), va a L’ondra a cercare fortuna, inizia come emulatore di Bobbe Dylan (che lo manderà pure affanculo tanto per non contraddirsi mai), ma intorno al 1966 c’è la svolta e diventa uno dei più importanti esponenti dello psychedelic rock di Anglaterra, va in India con i Beatles e gli insegna tutti arpeggi (lui è un genio con la chitarra, o almeno così dicono), si sposa Linda Lawrence, ne adotta il figlio Julian (il vero padre di questo bimbo è Brian Jones dei Rolling Stones…no, ma ci rendiamo conto di che culo? Questo c’ha un padre più fico dell’altro) e ne produce tanti altri, tra i quali Ione Skye, un’attrice che ogni tanto si vede in giro. Agli inizi degli anni ’70 comincia a fare schifo pesantemente e si leva dalle scatole.
Detto ciò, il mio album preferito è “Hurdy Gurdy Man”, ma quello che è considerato il suo capolavoro è "A Gift from a Flower to a Garden" del quale io proverò a parlarvi in breve poiché ho sonno e mi rode un po’ il culo.
“AGFAFTAG” (¿paura?) è effettivamente un capolavoro: due dischi ricoperti da una fattonissima copertina, il primo più sperimentala, il secondo più acustico e secondo me ultrastrafigo della sua semplicità. Donovan si rifà alle fiabe, alle leggende e ai viaggi interstellari acidoidi alogeni narcofloreali e ne esce un lavoro delicato, quasi sussurrato: molto psychedelic e poco rock (triste questa, però è vero, uffa…).
Potrei paragonare le canzoni di questo album ad una cesta di cagnolini: tutte coccolose, tutte amabili, “maaamma non riesco a scegliere!”, anche se io provo un affetto speciale per “The land of doesn’t have to be” nel primo disco e per “The lay of the last tinker” nel secondo. La canzone più celebre dell’album è invece “Wear your love like heaven”, canzone hippie per eccellenza, presente anche in una puntata famosa dei Simpson in cui Homer si fa tutte canne non ricordo perché.
Insomma, consiglierei questo e molti* altri album di Donovan a tutti i miei cari, in particolare nei momenti di odio per il mondo: perché quando lo senti diventi così buono che non riusciresti neanche a scaccolarti.
Oh Gosh.

*The Hurdy Gurdy Man, Sunshine Superman e Barabajagal in particolare.

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